In queste settimane sta destando riflessioni e sollecitando pareri da parte degli operatori del settore la recente sentenza della Corte di Cassazione, n. 31574 del 25.10.22 che ammetterebbe il risarcimento del danno non patrimoniale in forma di rendita per i soggetti che hanno subito un “macrodanno”.
Come tutte le pronunce della Suprema Corte inducono a gran fermento nel mondo dei cultori della materia.
Ora, tralasciando come si è giunti alla quantificazione del danno da responsabilità sanitaria, ossia, alle criticità dell’operato sanitario sul quale sembra esservi di fatto condivisione, ciò che avrebbe scaturito un rallentamento del risarcimento sarebbe riconducibile alle difficolta di definire puntualmente la spettanza di vita del paziente.
Come già affermato da cultori della materia, non è chiaro cosa di fatto si intenda per macrodanno questo anche perché i medici legali, a fronte degli articoli 138 e 139 del CdA, svolgono la loro attivita’ con la spada di Damocle sulla testa, ossia, la menomazione vale 8-9% o è superiore al 9%? Questo perché il Codice delle Assicurazioni ha posto un paletto: al di sotto del 9% microdanno, al di sopra macrodanno….
Con ciò ritengo che vi siano altre riflessioni magari non evidenti a una prima lettura della Sentenza e pertanto Vi propongo una riflessione del dr. Flaviano Antenucci, uno dei referenti culturali della SMLT.
Dott.ssa Sarah Nalin
Segretario SMLT
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DEL PROCESSO ALLE (BUONE) INTENZIONI
di Dr. Flaviano Antenucci – Hospital Risk Manager
Risarcire un danno grave pone sempre un problema di giustizia (perchè nessuna somma può compensare una vita compromessa) ed uno di etica (perchè nessuna disgrazia dovrebbe portare altri a lucrarne).
E se tutto sommato pare facile condividere i valori ispiratori che un approccio risarcitorio corretto deve avere, non altrettanto netta e certa diventa una qualsiasi loro applicazione nel caso concreto.
La vita non ha prezzo, si sa: la sofferenza umana (soprattutto quella generata da responsabilità altrui) non può ammettere in linea di principio alcun valore che possa ritenersi davvero compensativo. E la sensazione stessa, la coscienza del fatto che il proprio stato di disgrazia non è frutto del fato, ma del comportamento di altri è di per se stessa una sofferenza, uno stato dell’anima che non può, non deve conoscere alcun tariffario, alcun “valore” ad eccezione di quello (incalcolabile) della perdita dell’opportunità di vivere senza le conseguenze di ciò che è accaduto.
Terminata la festa dei buoni principi, tocca però poi scendere al piano “di sotto”, tocca probabilmente allontanarsi dalle ampie vetrate dell’attico, dove tutto il mondo è silente e funzionante ed avvicinarsi alla portineria, dove l’andirivieni delle esigenze (nemmeno sempre contrapposte), delle istanze, delle necessità di tutte le parti in causa deve trovare composizioni equilibrate, perchè “giuste” non si può…
E dunque ben venga la Suprema Corte a rammentare che non già essa, ma la legge (e da 80 anni, non da ieri) prevede la possibilità per il Giudicante di disporre in condannatorio il pagamento di una rendita in luogo di una somma capitale, in specie laddove intervengano proprio quegli elementi che rendono il pagamento di una cospicua somma capitale sconsigliabile, tenuto conto del contesto, del danno, dell’interesse del danneggiato, e così via.
Un appello al buonsenso che a dire il vero la Terza Sezione non manca mai di sottolineare, ed anche un tentativo di metodizzazione, di esemplificazione che non smetteremo mai di apprezzare.
A noi operatori vicini alla portineria resta, quindi, solo la valutazione di come prevenire, anticipare, evitare la pronuncia giudiziale in tutti quei casi dove la composizione è possibile quando sostenuta, motivata e (per l’appunto) anticipatoria di quanto il Giudicante disporrebbe nel caso la soluzione non trovasse consensi.
E qui, in portineria, le questioni pesanti sono almeno due, ed entrambe piuttosto scivolose…
La prima: alcune dei razionali giustamente suggeriti per far propendere verso la soluzione vitalizia sono condivisibili…a patto che le parti li condividano! E – giusto per fare una battuta – motivare la scelta della rendita sulla base dell’insufficienza culturale degli aventi diritto rispetto alla gestione di un capitale, rischia di portarsi dietro una nuova scia di insolubilità, e non certo di sicurezza. Specie in un Occidente (di cui il nostro Paese è culturalmente un prodotto di punta…) dove da svariati anni “l’ignoranza va di moda”, come diceva un acutissimo autore siciliano.
La seconda: un detto tradizionale ci ricorda che “tra i due litiganti il terzo gode”.
Ebbene il terzo che – aristotelicamente immobile – raccoglierebbe da questa nuova spinta verso un condannatorio per vitalizio è un Erario che in più di un caso ha ricordato (e incassato) somme per imposte di registro sulle rendite che moltiplicano a due cifre quanto invece il soccombente si trova a pagare per le somme capitali.
Una rendita soffre oggi di un’imposizione (laddove sia frutto di una disposizione giudiziale) talmente elevata da drenare somme significative sia al danneggiante, sia al danneggiato, e lo fa con lo stile tipico del Fisco, che a differenza di ogni altra applicazione in diritto non ammette eccezione, ed applica con encomiabile zelo le norme che (in assenza dei favori legislativi per tutte le rendite previdenziali private) accomunano il danneggiante che paghi in questa forma il danneggiato al feudatario che costituiva rendite per i figli cadetti.
La Cassazione ci ricorda che spessissimo la Legge contiene già tutte le disposizioni che servono per una giustizia equilibrata, e inietta anche quella dose di buonsenso che spesso i ricorrenti tardano o stentano ad usare.
Qui in portineria saremmo anche pronti: la posta la recapitiamo da una vita, anche ai piani alti, ma così il prezzo dei francobolli diventa ingestibile!