In vista del convegno del 14.04.2023 in Padova che organizzerà SMLT, si propongono alcune riflessioni sul tema che verrà affrontato, perdita di chances-nesso di causa, dell’Avvocato Elettra Bruno, uno dei referenti culturali della Società, che sin dall’inizio della sua carriera, si è dedicata alla Responsabilità Civile e al Risarcimento del Danno alla persona.
Buona lettura
Dott.ssa Sarah Nalin
Segretario SMLT
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Nesso di causalità e perdita di chances
Avv. Elettra Bruno, esperta in Responsabilità Civile e Risarcimento del Danno alla persona
Esistono confini chiari sulla carta, ma troppo spesso violati: e non sono solo quelli tra Israele e Gaza o tra Mosca e Kiev. Anche nel mondo del diritto si assiste con frequenza, in particolar modo nelle perizie medico-legali, a incursioni in territori altrui, a sovrapposizioni di idee e concetti, a conclusioni definibili come “meticciato dogmatico”.
Una delle materie in cui con maggior frequenza si riscontra questa sovrapposizione di campi e concetti è quella della responsabilità medica; e in essa la confusione più frequente è quella tra danno da anticipata morte e danno da perdita di chance di sopravvivenza.
L’errore è il seguente: ritenere che uccidere una persona malata, e prevedibilmente destinata ad una sorte infausta, null’altro significhi se non avere privato la vittima di una chance di sopravvivenza.
Ovviamente non è così, come cercherò di dimostrare.
A tal fine seguiremo questo iter: ricorderemo dapprima alcune nozioni istituzionali in tema di danno da morte; quindi ricorderemo alcune nozioni istituzionali in tema di danno da perdita di chance di sopravvivenza; infine, proveremo a tracciare (meglio, a ripercorrere) la chiara linea di confine tra le due fattispecie.
Il danno non patrimoniale da uccisione di una persona è quello sofferto dai prossimi congiunti della vittima, in conseguenza del lutto.
L’accertamento di questo danno esige la ricostruzione di un valido nesso di causa tra la condotta illecita e la morte della vittima primaria.
Il nesso di causalità tra condotta illecita e danno va ricostruito applicando in astratto un certo criterio giuridico e seguendo in concreto un certo criterio pratico.
Il criterio giuridico è quello condizionalistico. Quella condizionalistica è la nozione di causalità ormai da più di quindici anni seguita dalla Corte di cassazione ed affermata dalle Sezioni Unite nel noto gruppo di sentenze sul tema del danno da emotrasfusione con sangue infetto (Cass. sez. un. 11.1.2018, nn. da 576 a 585).
Criterio condizionalistico di causalità vuol dire che la condotta illecita deve essere stata una delle condizioni della morte: e cioè che, senza di essa, la morte non si sarebbe verificata. E’ l’antica concezione della condicio sine qua non.
La concezione causale detta della “condicio sine qua non” tende ad andare all’infinito, generando il paradosso c.d. della sovracausalità: in fin dei conti, secondo la teoria condizionalistica, “causa” di tutto quel che accade sarebbe sempre Dio o il Big Bang, che creando il mondo hanno messo in moto tutte le infinite serie causali successive.
Il problema della sovracausalità è stato risolto dalla Corte di cassazione, mitigando i paradossi della teoria della condicio sine qua non, ricorrendo alla nozione di “prevedibilità oggettiva”: il nesso di causalità è interrotto quando l’evento di danno, alla stregua delle conoscenze oggettive di una data epoca, non poteva in alcun modo supporsi come possibile.
Si badi che il limite della c.d. “prevedibilità oggettiva” prescinde del tutto dalle condizioni e qualità del responsabile. Non è un criterio di attribuzione della colpa, ma di delimitazione della causalità. E’ dunque irrilevante che, nel caso concreto, l’autore dell’illecito non potesse prevedere le conseguenze dannose della propria azione. Quel che rileva non è se lui potesse prevederle, ma se la scienza, intesa come complesso delle conoscenze di un determinato momento storico, potesse prevederle.
Così, per fare un esempio: se all’esito di un intervento di eliminazione di un aneurisma dell’aorta addominale con tecnica endovascolare si verifica una aderenza intestinale, con conseguente necessità di asportare un tratto dell’intestino, la causalità non può escludersi solo perché tale evento era imprevedibile dal chirurgo. Potrà escludersi solo se quel fenomeno non si fosse mai osservato in precedenza, ed era ignoto ed inspiegabile per la comunità scientifica.
Stabilito quale sia la nozione di “causalità” giuridicamente rilevante, il giurista è solo a metà del suo cammino. Resta infatti da stabilire con quale criterio pratico debba essere “accertato” in concreto quel nesso: avvertendo che in questa materia il verbo “accertare” va usato come una metonimia, dal momento che quello di causalità è un giudizio da compiere, non un fatto da dimostrare. La causalità sta nella testa degli uomini, non nella realtà delle cose, sicché essa può essere solo “ricostruita”, o “pensata”, se si vuole, ma mai “accertata”.
La questione ovviamente non è puramente ideologica: poiché la causalità è un giudizio da compiere e non un fatto da accertare, il modo in cui tale giudizio viene compiuto dal giudice di merito può essere sindacato in sede di legittimità.
Il criterio pratico con cui va compiuto il giudizio (condizionalistico) di causalità è stato anch’esso da tempo stabilito dalla Corte di cassazione a Sezioni Unite: si tratta del criterio c.d. “della preponderanza dell’evidenza”, o del “più sì che no”.
L’espressione “preponderanza dell’evidenza” venne utilizzata per la prima volta dalle già ricordate decisioni delle Sezioni Unite dell’11.1.2008, nn. 576-585, e venne mutuata dalla giurisprudenza (civile) inglese.
Anche nel diritto processuale inglese, come nel nostro, il criterio di accertamento della causalità differisce tra il settore penale e quello civile. Nel campo penale la causalità viene accertata col criterio del “beyond reasonable doubt” (“al di là di ogni ragionevole dubbio”), equivalente alla nostra “alta o elevata credibilità razionale”, di cui alla nota sentenza delle Sezioni Unite penali Cass. pen., sez. un., 10-07-2002, in Foro it., 2002, II, 601).
Nel campo civile, invece la causalità è accertata col criterio della “preponderance of evidence”, formulato da un giureconsulto britannico del XVIII sec., il quale formulò un noto brocardo secondo cui “where evidence is produced on both sides, the verdict is given for the plaintiff or defendant, according to the superior weight of evidence” (Edward Wynne, Eunomus, or Dialogues Concerning the Law and Constitution of England, London 1768, 153).
Il criterio della “preponderanza dell’evidenza”, per come recepito dalle Sezioni Unite nel 2008, sta a significare che per affermare il nesso di causalità tra una condotta illecita ed un evento di danno non è necessario disporre di elementi che consentano di affermare che, senza la condotta illecita, il danno certamente non si sarebbe verificato.
La causalità civile è una causalità probabilistica, non deterministica (o, come si usa dire, “baconiana” e non “pascaliana”), il che vuol dire che essa va affermata esistente quando sia anche solo “probabile” che, in assenza della condotta illecita, il danno non si sarebbe verificato.
E’ con questi criteri, dunque, che va ricostruito il nesso di causalità tra la condotta di un medico e la morte di una persona.
Ma l’applicazione di questi criteri, ed in particolare quello condizionalistico, impone di concludere che vi è nesso di causa tra condotta e morte in tutti i casi in cui quest’ultima, in presenza di una diversa condotta del sanitario:
a) non si sarebbe verificata;
b) non si sarebbe verificata nello stesso momento.
Ed, infatti, se si ammette che “causa” è ogni antecedente senza il quale il danno non si sarebbe verificato nello stesso modo in cui ebbe a verificarsi, deve concludersi che accorciare la vita di un uomo anche solo di un minuto è pur sempre un omicidio.
Anzi, ogni omicidio – anche quello, in ipotesi, di un ultracentenario moribondo – null’altro è, se non l’accorciamento della vita di un essere umano.
E’, quindi irrilevante ai fini della causalità giuridica la circostanza che il paziente fosse già malato anche prima che incorresse nell’errore dei medici (e del resto, verrebbe di aggiungere, se un paziente non fosse malato non sarebbe nemmeno un “paziente”, e non avrebbe bisogno di rivolgersi ai medici).
La sentenza “capostipite” di tale orientamento fu pronunciata venti anni fa da Cass. civ. sez. III, 10.5.2000 n. 5962, ove si affermò che “del bene della vita l’elemento tempo costituisce una componente essenziale, con la conseguenza che ogni fatto imputabile che ne determini l’anticipata cessazione, influenzando un fattore patogenetico già esistente e costituente la causa clinica del decesso, non può considerarsi mera occasione, ma concausa, rompendo quell’equilibrio precario nella salute del soggetto, che, per quanto con prognosi infausta per il futuro, si era generato. In siffatte fattispecie, quindi, il nesso di causalità va esaminato, secondo i principi della regolarità causale, non solo fra fatto ed evento letale, ma anche tra fatto e accelerazione dell’evento morte”.
Da allora questi princìpi sono rimasti saldissimi nella giurisprudenza di legittimità (nello stesso senso, Cass. 7.2.2017 n. 3136; Cass. 13.11.2014 n. 24204; Cass. 27.3.2014 n. 7195; Cass. 19.2.2013 n. 4043; Cass. 27.11.2012 n. 20996; Cass. 14.6.2011 n. 12961; Cass. 19.11.2010 n. 23461, tra le tante).
Infine, la questione è stata da ultimo ampiamente illustrata nella nota sentenza Cass. 11.11.2019 n. 28993.
In tale sentenza si è affermato che:
A) se è certo che il medico abbia provocato la morte del paziente, ai congiunti di questi spetta il risarcimento del danno da rottura del rapporto parentale;
B) se è “più probabile che non” che il medico abbia provocato la morte del paziente, ai congiunti di questi spetta risarcimento del danno da rottura del rapporto parentale;
C) se è teoricamente possibile, che il medico abbia provocato la morte del paziente, ai congiunti di questi potrà spettare iure hereditario solo il risarcimento del danno da perdita delle chances di sopravvivenza.
In conclusione, il diritto vivente è talmente consolidato e costante, che non consente nessuna elucubrazione interpretativa sul seguente punto: uccidere una persona che si trovava in articulo mortis è un omicidio, e fa sorgere nei congiunti della vittima il diritto al risarcimento del danno.
Accertata nei termini che precedono il nesso di causalità “a monte” tra condotta e danno, o “causalità materiale”, resterà poi da accertare il nesso di causalità “a valle” tra evento di danno e conseguenze che ne sono derivate (e cioè la c.d. “causalità giuridica”): ed è in questo secondo àmbito che, solo, potrà rilevare la ridotta speranza di vita della vittima. Dunque sul piano del quantum debeatur, ma non su quello dell’an debeatur.
Abbiamo visto se, ed a quali condizioni, possa ritenersi sussistente il nesso causale tra la condotta di un medico e la morte di una persona.
Passiamo ora ad esaminare cosa può accadere quando il suddetto nesso di causalità sia incerto.
Va fatta una premessa generale: “causalità incerta” non equivale a causalità solo “probabile”. Come già visto, infatti, la causalità per la Corte di cassazione è probabilistica e non deterministica. Dunque il nesso di causalità va dichiarato sussistente in tutti i casi in cui le probabilità che il danno sia stato causato dall’errore del medico siano superiori a tutte le altre ipotesi causali astrattamente ipotizzabili.
Così, per fare un esempio, se la morte di un paziente sia astrattamente ascrivibile per il 30% alla colpa di un sanitario, per il 25% a fattori naturali, per il 25% a una malattia pregressa, e per il restante 20% al fatto di un terzo, dovrà dichiararsi che la condotta medica fu la causa esclusiva del danno, perché fu quella relativamente più probabile rispetto a tutte le altre.
Può dunque parlarsi di “causalità incerta” non già quando plurime siano state le cause della morte, e si debba solo stabilire quale sia il “peso specifico” di ciascuna di essa.
Deve parlarsi di “causalità incerta”, invece, quando plurime possono essere state in astratto le cause della morte, ma queste siano in tutto od in parte ignote, oppure non sia possibile attribuire alcun “peso specifico” a ciascuna di esse.
Nelle ipotesi di causalità insuperabilmente incerta tra condotta del medico e morte del paziente, resta esclusa la pensabilità stessa di un danno da morte risarcibile jure proprio ai congiunti della vittima.
Ciò, tuttavia, non basta ad escludere ogni responsabilità del medico o della struttura sanitaria: resta da accertare, infatti, se possa dirsi sussistente un danno da perdita delle chances di sopravvivenza.
Molti equivoci sussistono oggi sulla nozione di “danno da perdita delle chance di sopravvivenza”, per come concettualizzata dalla Corte di cassazione, Equivoci, forse, scaturiti proprio dalle oscillazioni della Suprema Corte su questo tema.
Purtuttavia, ormai da almeno tre anni la giurisprudenza di legittimità… non oscilla più, ed è salda nell’affermare i seguenti princìpi:
primo: il danno da perdita di chance consiste nella perdita d’una possibilità, non d’una speranza o d’un auspicio;
secondo: il danno da perdita di chance esige un nesso di causa certo (nel senso sopra indicato) tra fatto illecito e perdita della possibilità di sopravvivenza.
Il danno da perdita di chance (di sopravvivenza) consiste dunque nella perdita della mera possibilità di sopravvivere, perdita che deve essere eziologicamente causata, secondo la regola del “più sì che no”, da un atto medico colposo.
Si intende dunque come il danno da morte ed il danno da perdita delle chances di guarigione o sopravvivenza siano pregiudizi tra loro alternativi, e si escludono a vicenda.
Il primo tipo di danno presuppone, come s’è detto, l’esistenza di un nesso di causalità materiale tra la condotta colposa e la morte; il secondo tipo di pregiudizio presuppone per contro l’assenza di un nesso causale tra condotta illecita e morte del paziente, ed esige invece l’esistenza d’un nesso di causalità materiale tra condotta colposa e soppressione d’una possibilità.
Delle due, quindi, l’una: chi causa la morte di un uomo non fa perdere alla vittima una chance; chi provoca una perdita di chance non causa la morte di alcuno.
Secondo la S.C., pertanto, provocare con certezza (certezza in senso giuridico: e dunque, per quanto s’è detto, una certezza da accertare col criterio del “più sì che no”) la morte di una persona già malata, la cui sopravvivenza sarebbe stata di incerta durata, non costituisce un danno da perdita di chance, ma un danno da uccisione tout court.
Dunque affinché possa predicarsi l’esistenza di un danno perdita di chances, invece che di un danno da uccisione,è necessario che l’errore del medico sia stato non già la causa certa o probabile (secondo la regola del “più sì che no”) della morte del paziente, ma sia stato solo una causa ipotetica o possibile della morte del paziente.
Questi princìpi, dopo alcune oscillazioni, sono stati affermati dalla Suprema Corte nell’ambito del c.d. “Progetto Sanità”[1], nella importante decisione pronunciata da Cass. civ., sez. III, 11-11-2019, n. 28993, in Foro it., 2020, I, 187, con nota di Tassone, La chance fra razionalizzazione, finzione e sanzione).
In tale sentenza, come anticipato, si è affermato che:
A) se è certo che il medico abbia provocato la morte del paziente, ai congiunti di questi spetta il risarcimento del danno da rottura del rapporto parentale;
B) se è “più probabile che non” che il medico abbia provocato la morte del paziente, ai congiunti di questi spetta risarcimento del danno da rottura del rapporto parentale;
C) se è possibile, che il medico aveva provocato la morte del paziente, i congiunti di questi spetterà iure hereditario solo risarcimento del danno da perdita delle chances di sopravvivenza.
Alla luce di quanto esposto sin qui è agevole dare risposta al quesito da cui eravamo partiti.
Immaginiamo che un consulente tecnico debba accertare se la morte di un paziente sia stata causata da un errore medico, oggettivamente accertato.
Immaginiamo che il consulente accerti che effettivamente la condotta del medico ha provocato con ragionevole probabilità (“più sì che no”) la morte del paziente.
Immaginiamo, infine, che il paziente, per le sue condizioni pregresse, avrebbe avuto una ridotta speranza di vita, quand’anche la prestazione medica fosse stata eseguita correttamente.
Ebbene, dinanzi ad una fattispecie concreta di questo tipo il consulente il quale concludesse le proprie operazioni asserendo che, in conseguenza dell’operato del sanitario, il paziente ha perduto solo la chance di sopravvivere, incorrerebbe in un evidente errore di diritto, che se condiviso dal giudice si comunicherebbe alla sentenza, e la renderebbe viziata.
In un caso come quello appena descritto, infatti, non di danno da perdita di chance si dovrebbe discorrere, ma di danno da “anticipata morte”: il che val quanto dire danno da omicidio colposo e quindi di un danno in nesso di causa con l’errore.
[1] Lo si apprende dal Report “La nuova responsabilità sanitaria nella giurisprudenza di legittimità”, disponibile sul sito web della Corte di cassazione (https://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/REPORT_Luigi_La_Battaglia_27.11.2019_Nuova_responsabilita_sanitaria.pdf).