Le Infezioni correlate all’assistenza: dalla clinica alle pronunce della Cassazione

Si pubblica la relazione del Dott. Gianni Barbuti, Presidente del convegno “Infezioni correlate all’assistenza, dalla clinica alle pronunce della Cassazione”, svoltosi a Padova in data 20.10.2023.

Dott.ssa Sarah Nalin 

Segretario SMLT 


“È indubbio che nel contesto del generale incremento delle richieste risarcitorie per danno iatrogeno si stia assistendo ad un significativo aumento di quelle per danno alla persona conseguente alle infezioni correlate all’assistenza (ICA).
A conferma dell’attualità e rilevanza del problema, da qualche mese è trasmesso alla radio su canale nazionale un messaggio pubblicitario che promette il risarcimento, non tanto per le conseguenze di generica “malasanità”, ma bensì con esplicito ed esclusivo riferimento proprio alle infezioni nosocomiali garantendo, fra l’altro, l’assistenza legale gratuita, indice di una elevata aspettativa di successo.
I dati statistici indicano che nel complessivo di circa 300.000 richieste risarcitorie per anno per presunto danno iatrogeno, il 6,7% ha come oggetto un’infezione nosocomiale, ponendosi al IV posto nella particolare classifica per tipologia.
In Italia si calcolano circa 800 mila casi di infezione nosocomiale all’anno, con oltre 7 mila decessi.
Negli stati membri della UE emerge che oltre 4 milioni di pazienti contraggono ogni anno un’ICA con 37.000 decessi attribuibili direttamente all’infezione e 110.000 per i quali l’ICA costituisce una concausa di decesso.
Dunque, il fenomeno è tutt’altro che “nazionale” apparendo diffuso in tutto il mondo occidentale.
Il problema è pertanto statisticamente significativo e va affrontato con il combinato apporto di medici legali, specialisti di branca, infettivologi e igienisti, esperti in scienze infermieristiche, giudici, avvocati e assicuratori.
Le infezioni correlate all’assistenza presentano plurime difficoltà interpretative e pongano significative sfide allo specialista medicolegale.
Compito primario del medicolegale, applicando i criteri propri della disciplina, assistito dallo specialista di branca, in particolare l’infettivologo e l’igienista, quello di accertare l’effettiva sussistenza di una patologia asseritamente riconducibile ad una infezione nosocomiale, per poi definire ove possibile la natura del patogeno ed infine affrontare i profili di eventuale responsabilità della struttura.
Tuttavia, le ICA presentano anche un profilo di assai meno agevole esplorazione, quello della condotta dei singoli addetti che costituisce il vero aspetto oscuro della ricostruzione causale.
Va in proposito ricordato che secondo l’OMS le cause più frequenti di contagio non sono quelle strutturali, ma si concretizzano nella condotta dei singoli: principalmente per inadeguata igiene delle mani, carenza nel cambio del vestiario e nell’uso non corretto dei presidi individuali soprattutto guanti e mascherine.
Se può risultare relativamente agevole controllare la corretta aderenza della struttura alle indicazioni di legge e alle norme derivanti dalla scienza, spesso non è possibile -nemmeno con il vaglio della più raffinata ricerca ambientale e ricostruzione temporale- stabilire se all’origine dell’ ICA si collochi la mancata adesione di uno o più addetti alle norme d’igiene (ancorché corrette e stringenti) previste e declinate dalla struttura di appartenenza.
Ed allora lo specialista medico legale si ritrova nel procelloso mare della presunta responsabilità oggettiva o meglio della responsabilità oscura: pur riconoscendo la corretta implementazione da parte della struttura di norme e procedure conformi a miglior scienza, rilevato il ricorrere dell’infezione con le caratteristiche tipiche dell’origine nosocomiale per criterio topografico, temporale, d’efficienza lesiva, per esclusione di altra causa ed infine per esplicito riconoscimento della natura del patogeno come afferente alla flora ospedaliera, non gli sarà agevole stabilire se uno o più operatori abbia colposamente mancato nell’applicazione delle norme e dei dettami previsti come il corretto lavaggio delle mani o l’uso dei guanti o il cambio del vestiario.
È indubbio che il prevalere dei profili contrattuali, derivanti dal cosiddetto “contatto sociale”, induce a sbilanciare il rapporto a sfavore delle strutture, incombendo su di loro l’obbligo -assai complesso e di difficile concretizzazione- di dimostrare che l’infezione e le sue conseguenze non sono attribuibili a “carenze strutturali” di ospitalità, educazione e sorveglianza del personale.
D’altro lato, sappiamo per prevalente orientamento giurisprudenziale che non costituisce sufficiente ed esaustiva prova liberatoria la produzione in giudizio dei protocolli implementati dalla struttura ancorché omogenei a linee guida, a buone pratiche clinicoassistenzali e conformi ad indicazioni Ministeriali, incombendo sulla struttura l’obbligo di dimostrarne l’effettiva applicazione hic et nunc nel caso concreto.
In questo non semplice quadro di interferenza fra norme giurispudenziali, conoscenze scientifiche e dati epidemiologico-statistici, è intervenuta la Corte di Cassazione che con la recente sentenza del 3 marzo 2023 n. 6386 (Presidente Travaglino, Relatore Rubino) ha non solo ribadito che non esiste la responsabilità oggettiva della struttura, ma ha anche tracciato le linee guida per la verifica del nesso causale e dei criteri di responsabilità in tema di infezioni correlate all’assistenza.
Di fatto, la S.C. giustamente richiama il consulente ad attenersi ai generali principi della corretta indagine medico legale, ovvero la verifica della effettiva ricorrenza dei criteri di asseverazione del nesso causale, da quello di efficienza lesiva, al criterio topografico, a quello “clinico” che a sua volta sottende quello epidemiologico-statistico.
Ma la S.C. si spinge più in là rammentando (e declinandoli in guisa di decalogo) i principali aspetti epidemiologico statistici ed oggettivi che dovranno essere esaminati nella consulenza d’ufficio (ed inevitabilmente dedotti anche in quelle di parte).
Quanto nella pronuncia della S.C. costituisce uno stimolo ed una sfida che non possono che essere accolti positivamente dalla medicina legale.
Uno degli aspetti più affascinanti ed attraenti della nostra disciplina quello della continua necessità di studio ed esplorazione di dimensioni scientifiche, anche apparentemente aliene, ma le cui conoscenze dovranno poi costituire strumenti sostanziali all’indagine peritale.
Ma usando un aforisma anglosassone molto utilizzato in economia ma anche in fisica, non esistono “pasti gratis”.
La necessità di una accurata ed approfondita ricerca allargata oltre l’orizzonte specialistico medicolegale ed infettivologico, si riverbera inevitabilmente sui costi peritali sia di parte che d’ufficio.
Presupporre un collegio peritale non solo composto dal medico-legale e dall’infettivologo, ma anche dall’igienista, dal bioingegnere ed altre figure di esperti (dall’infermiere forense all’esperto in risk management) implica necessariamente un investimento economico elevato che da solo potrebbe costituire significativo ostacolo per intraprendere la strada del riconoscimento di diritti potenzialmente giustificati.
Non possiamo poi nascondere un ulteriore paradosso: spesso le infezioni nosocomiali si esauriscono con un mero prolungamento dello stato di malattia; pertanto, con un danno biologico unicamente temporaneo differenziale incrementativo che come sappiamo viene risarcito sulla scorta delle indicazioni ex articolo 139 del codice delle assicurazioni, pertanto con ben pochi denari.
Ci si troverebbe pertanto di fronte alla contrastante situazione di spese consulenziali potenzialmente superiori rispetto al petitum stesso.
E questo anche considerando il progetto della commissione ministeriale voluta dal Ministro Nordio per la depenalizzazione dell’attività sanitaria (presieduta dal Dr. Adelchi d’Ippolito, con la partecipazione del Prof. Fineschi quale autorevole rappresentante della disciplina medicolegale) che prevede quale condizione preliminare per l’accesso al giudizio (civile o penale che sia) una “perizia medicolegale qualificata” che non potrà prescindere, per le dette motivazioni, da un accertamento in equipe.
Una possibile soluzione, quella di un sistema indennitario no fault su modello francese, in grado da un lato di ristorare il danno conseguente a ICA e, dall’altro, di liberare in sistema giudiziario da procedimenti già ora complessi e che probabilmente diverranno in futuro ancora più complessi, lunghi ed inevitabilmente costosi sia per il cittadino che per la comunità.
Il modello indennitario non potrà tuttavia prescindere dal vaglio tecnico medico legale e specialistico, giacché solo la rigorosa applicazione della disciplina scientifica potrà asseverare l’effettivo sussistere delle caratteristiche dell’infezione correlata all’assistenza e valutare l’entità del danno conseguito stabilendone i parametri dell’equo indennizzo.
Anche tale modello prevede ovviamente dei costi per la comunità, tuttavia potenzialmente inferiori a quelli attuali sia per la giustizia che per l’intero sistema Paese, rammentando che anche quelli a carico delle ULSS e delle assicurazioni si riverberano in ultima analisi sulle tasse del cittadino.

La complessità ed urgenza del problema è da tempo ben noto alla Società Medicolegale del Triveneto che grazie al generoso impegno del Segretario, Dr.ssa Sarah Nalin e del Presidente, Dr. Enrico Pedoja, sentito il parere del Consiglio, ha organizzato questo convegno che vede la partecipazione di prestigiosi ed autorevoli relatori, con il fine non solo di fare il punto della situazione ma di proporre soluzioni con modelli operativi implementabili in concreto sia nell’attività consulenziale d’ufficio come di parte.”

Dr. Gianni Barbuti
Medico Legale
Consigliere e cofondatore della SMLT
Segretario Nazionale SIOF


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