La Sentenza Corte dei Conti Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 282/2022 pone delle riflessioni sul fatto che talora alcune battaglie non vanno combattute poiché un errore strategico può diventare più rilevante dell’ammissione di un errore medico già sentenziato.
Si propone di seguito un breve commento del Dr. Flaviano Antenucci, Hospital Risk Manager, che ha fatto della strategia uno dei principi cardine della Sua attività professionale.
Dott.ssa Sarah Nalin
Segretario SMLT
Commento alla Sentenza Corte dei Conti Sezione Prima Giurisdizionale Centrale d’Appello n. 282/2022
Dr. Flaviano Antenucci
Hospital Risk Manager
“Nel mondo semplice che ci ostiniamo a volerci rappresentare, causa ed effetto sono perfettamente distinguibili: ha colpa chi ha sbagliato, e chi non ha sbagliato ha ragione!
Se un servizio, o un oggetto, o una prestazione sono buoni, allora saremo soddisfatti, mentre se non lo sono, probabilmente avremo da ridire qualcosa e magari ci arrabbieremo pure!
Se una prestazione professionale ad alta specializzazione raggiunge il suo obiettivo (di tenermi al riparo da contestazioni fiscali, di avere l’auto in efficienza, di conservare la mia salute) allora sarà tutto perfetto: ma se questo non succederà, allora avrò tutti i diritti di chiederne ragione!
Bisogna però fare pulizia di alcuni “dogmi” che spesso albergano nelle nostre valutazioni, per i quali non serve altro che l’utile esercizio del confronto con la realtà.
Ad esempio, il nostro mondo non è affatto semplice: è iperconnesso e non esiste più alcun oggetto, alcuna prestazione stand alone. Anche il miglior consulente fiscale opera con l’ausilio di strumenti che non dipendono esclusivamente da lui e la sua opera si inserisce in una filiera più lunga, che inizia prima di lui e continua dopo la sua opera. Nessun riparatore meccanico o elettronico oggi può andare “a orecchio”. Perché persino le auto sono connesse, ed in un certo senso talmente complesse da avere un loro spazio di insondabilità.
Ad esempio, la differenza tra una buona prestazione ed una pessima prestazione spesso non è nella qualità della prestazione, essendo anche funzione della sua organicità nella inevitabile “filiera”, come pure delle aspettative che il cliente (o il paziente) coltiva verso la prestazione stessa, ed infine anche della “percezione” del servizio ricevuto.
In altre parole, è finito da decenni il tempo in cui la richiesta risarcitoria – o di garanzia o comunque di impegno verso il fornitore – era la spia sicura di un difetto della prestazione.
Viviamo in un mondo che percepisce come “migliore” un oggetto più costoso e meno affidabile solo perché è diverso, o per il suo blasone. Ci affidiamo ad un professionista perché “è il migliore”, anche se poi siamo pronti a cambiare idea perché ci ha dedicato troppo poco tempo (a proposito, anche il tempo da solo non è più spia della qualità, in nessun senso…) senza domandarci se ha fatto ciò che ci aspettavamo o no.
Il discorso potrebbe continuare a lungo, ma il punto di oggi invece è: perché il medico convenuto davanti alla Corte dei Conti viene condannato? E perché l’appello conferma questa condanna, visto che tutto sommato si tratta di una contestazione di condotta omissiva in un percorso diagnostico oncologico, cioè della richiesta risarcitoria più frequente in oncologia? Perché lui sì e tanti altri no?
Ci sono due possibili risposte e proveremo a darle entrambe.
Perché la causa risarcitoria antecedente (e fondante) il giudizio erariale finì con un condannatorio motivato e sorretto da una CTU tecnica ineccepibile, che aveva accertato le responsabilità del medico al punto da porre il liquidato a carico sia della struttura, sia del professionista.
Perché il professionista era un’autorità nel suo campo, e come si sa da molto tempo, il giudizio responsabilistico si basa anche sulla diligenza attesa, che è più alta se l’obbligato è più esperto, ed anche perché non aveva visitato la paziente una volta sola, continuando quindi ad omettere accertamenti ulteriori nonostante il complesso dei sintomi e l’esito dell’agoaspirato.
Infine, perché il percorso diagnostico era stato segnato da numerosi segnali di allarme (provenienti dal resto della filiera assistenziale) sistematicamente ignorati.
Questa la risposta “tecnica”, che è anche la motivazione con la quale la Corte dei Conti in appello ha confermato la condanna. Per certi versi tranquillizzante, perché la responsabilità erariale viene qui accertata non per la semplice omissione diagnostica, ma perché reiterata e per certi versi davvero “abnorme”, come da consolidata giurisprudenza nella materia.
Una seconda risposta potrebbe essere questa: un esperto di fama nazionale viene consultato dalla paziente dopo un sospetto diagnostico sollevato da altro professionista. Questo esperto visita più volte nel tempo la giovane paziente e ritiene di ignorare i fattori di allarme che via via emergono in funzione della giovane età della paziente, unico elemento che deponeva per l’improbabilità della malattia poi conclamatasi e diagnosticata altrove con 9 mesi di ritardo.
Può succedere, ed anzi succede.
Quello che non può succedere è che a fronte di una situazione come questa ci si difenda (ancora!) sul fatto che nessuno dei campanelli di allarme poteva considerarsi risolutivo, che si richieda ancora ai CTU ed al Giudice di valutare statistiche ed indicazioni ignorando la questione principe che è l’opportunità!
Non può essere che uno dei massimi esperti si aspetti di non essere tenuto (civilmente) responsabile per un esito tutto sommato non grave sul quantum in una situazione nella quale certamente il suo comportamento avrebbe dovuto essere diverso.
In altre parole, il giudizio in Corte dei Conti nasce da una precedente sentenza di condanna. Che nessuno avrebbe dovuto lasciar scrivere. Non su temi tecnici, non su questioni così chiare.
La sentenza in commento oggi (in appello! In Corte dei Conti!) è il risultato di questo comportamento, non dell’omissione diagnostica.
E la causa di una sconfitta duplice e bruciante non è l’errore medico ma l’errore strategico di una battaglia che non andava combattuta.
Di una domanda che non bisognava porre.“