L’INTERPRETAZIONE DELLA SMLT
Si propone il contributo scientifico del dott. G. Barbuti, Consigliere SMLT che, in qualità di relatore ha presentato al Convegno del 7.10.22 in Padova sul Covid- Long Covid.
Buona Lettura
Dott.ssa Sarah Nalin
Segretario SMLT
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L’INFORTUNIO DA COVID-19 IN POLIZZA PRIVATA: CRITERI DI INDENNIZZABILITÀ E ASPETTI VALUTATIVI
L’INTERPRETAZIONE DELLA SMLT
Dr. Gianni Barbuti
Consigliere SMLT
Nonostante quanto possa sembrare, l’infortunio indennizzabile è un evento complesso ed ogni tentativo di sua semplificazione conduce inevitabilmente a conclusioni contraddittorie ed insoddisfacenti foriere di contenzioso.
Poiché l’evento infortunio non è definibile facendo riferimento a disposizioni di legge, le parti contraenti concordemente attribuiscono al termine un significato convenzionale che viene solitamente definito in polizza all’articolo 1, come evento dovuto a causa fortuita, violenta ed esterna, che produca lesioni fisiche oggettivamente constatabili, le quali abbiano per conseguenza la morte, un’invalidità permanente oppure una inabilità temporanea.
L’infortunio, dunque, per poter essere indennizzato deve soggiacere a specifiche caratteristiche di causalità, nessuna esclusa, e in particolare la causa deve essere fortuita, violenta ed esterna e deve produrre lesioni fisiche oggettivamente constatabili. Tutti questi profili definitori della causa debbono necessariamente ricorrere, nessuno escluso, per poter garantire l’indennizzabilità dell’evento.
Per causa fortuita si intende evento casuale imprevedibile, accidentale e non voluto. La causa per poter essere definita “esterna” deve essere palesemente esogena rispetto l’infortunato. Ma se le predette definizioni appartengono alla cosiddetta conoscenza media comune a tutti e pertanto relativamente facili da illustrare nel contratto in quanto agevolmente comprensibili al contraente, rimane non ben definita la natura violenta della causa.
Secondo assodata dottrina la violenza della causa viene assimilata alla sua concentrazione temporale.
In tal senso quanto in plurime fonti dottrinarie: già il Borri nel 1924 diceva che l’infortunio è un danno determinato da un evento subitaneo e quindi poneva l’accento sulla concentrazione temporale.
La nota guida del Luvoni e collaboratori nelle sue plurime edizioni risalenti alla seconda metà del secolo scorso, definisce la causa violenta come ogni causa lesiva che agisca con modalità concentrata nel tempo.
Ma anche più recentemente, la guida di Cortivo et al. nelle sue due edizioni del 1998 e 2003 afferma che “la violenza è univocamente identificata nella concentrazione temporale”.
Infine anche l’Inail identifica la violenza della causa come immediatezza e concentrazione temporale, estendendola però alla durata di un turno di lavoro.
Ma quando e chi ha introdotto il concetto contrattualmente qualificante di causa violenta?
Il 17 marzo del 1898, regnante Umberto I di Savoia, veniva promulgata dal neonato Stato Italiano, la legge 80, istitutiva l’assicurazione obbligatoria sugli infortuni sul lavoro, imponendola a favore dei dipendenti -a cura e spese dell’imprenditore- per tutti i casi di morte o lesioni personali provenienti da un infortunio che “avvenga per causa violenta” in occasione di lavoro.
Pur richiamandola, l’articolo non specificava che cosa fosse la “violenza” della causa, che rimaneva pertanto concetto inesplicato.
In merito la Cassazione osservava, criticamente, nel 2003 (Sezione del Lavoro, n.239/2003) come tale concetto fosse, in buona sostanza, “semplicistico” derivato da un modo di ragionare definito “innocente”, limitato alle cause “meccaniche”, aggettivato dalla rapidità e concentrazione temporale, ma sostanzialmente ereditato e trasmesso nella conoscenza giurisprudenziale in modo acritico.
La Suprema corte -che spesso si pregia utilizzare termini di elevata lingua italiana- definisce questa trasmissione con il termine di “tralaticiamente”, che appunto indica il trasferimento di un concetto in modo passivo, senza che nessuno si prenda la briga di valutarne la oggettiva efficacia e natura, ponendo pertanto l’accento sulla persistente carenza definitoria del termine di causa violenta.
Di fatto, anche nei contratti di polizza infortuni privata il concetto di concentrazione temporale conduceva a problemi interpretativi, determinando l’esclusione di taluni eventi che nella comune accezione dei contraenti non potevano non essere considerati infortuni in quanto conseguenti a causa fortuita, esterna e sicuramente, nella condivisa accezione di “buon senso comune”, “violenta”.
Talché ancorché mancanti di concentrazione temporale, sono considerati indennizzabili gli infortuni che conseguono ad avvelenamento, asfissia, annegamento, assideramento, congelamento e colpo di calore.
Viste le dette estensione che travalicano il limite della concentrazione temporale e con particolare riferimento all’avvelenamento, si perviene al concetto di malattia infettiva come infortunio.
Concetto di fatto pacificamente assodato in ambito Inail.
Ciò è ribadito nella circolare 74 del 23 novembre 1995 e poi nuovamente nel 2020, quando in piena epidemia COVID 19, l’Inail richiama la tradizionale equiparazione dell’Istituto tra causa violenta e causa virulenta.
Ma tale concetto non è patrimonio esclusivo dell’Inail -e su questo aspetto tornerò fra breve-: in realtà dottrina medicolegale già da tempo, ben prima dell’attuale pandemia, sosteneva che l’infezione da virus o batteri deve essere considerata come evento infortunio indennizzabile.
Come citato dal Prof. Zoja in suo articolo su Ridare del maggio 2020, già il Borri nel 1924 affermava che la violenza della causa si riscontra anche in azioni che apparentemente non hanno nulla di grandioso di grossolano, di brutale, come l’azione di un tossico o un virus -risalta ancora una volta l’equiparazione fra virus e veleno- , che superate le difese dell’organismo susciti delle imponenti reazioni morbose nell’organismo con le stesse caratteristiche se non superiori a quelle di un trauma meccanico.
In realtà, che l’infezione fosse potenzialmente assimilabile all’infortunio indennizzabile, era di fatto a conoscenza anche delle compagnie d’assicurazione, tanto che si premuravano ad introdurre nei contratti il principio dell’esclusione.
Così già in epoca ottocentesca nei contratti erano esclusi dagli infortuni le infezioni da carbonchio o da malaria.
Entrambe le dette infezioni sono infatti caratterizzate da una penetrazione del patogeno per “azione meccanica”: le spore del Bacillus Antrhacis (carbonchio) penetravano nei lavoratori (scaricatori di porto, conciatori, agricoltori) attraverso lesioni cutanee; era un tempo tipicamente diffusa fra gli scaricatori portuali per l’effetto lesivo delle pelli infette che portate sulle spalle nude, agendo con frizione meccanica, ferivano la cute del lavoratore, inoculando le spore del patogeno. Simile il meccanismo di trasmissione del Plasmodio malarico, che penetra nell’organismo per il tramite dell’azione “lesiva” della cute da parte dell’artropode vettore. Ricorrendo pertanto una lesione dell’integrità cutanea, l’infezione derivante era da integrarsi fra gli infortuni da causa “meccanica e concentrata nel tempo” pertanto “violenta”.
La detta esclusione era però parzialmente mitigata con l’introduzione nei modelli contrattuali più recenti, della estensione di copertura alle infezioni o “avvelenamenti del sangue”, ma solo se conseguenti ad eventi traumatici come il morso di animale o la puntura di insetti o la puntura di vegetali, sempre mantenendo valida la predetta esclusione del Carbonchio (patologia nel frattempo divenuta estremamente rara) e Malaria ed estendendo l’esclusione ad altra più recente fattispecie patologica, l’infezione da HIV anche quest’ultima potenzialmente derivante da inoculazione, ovvero da lesione “meccanica” della integrità cutanea.
In buona sostanza l’ordine della catena causale deve prevedere il verificarsi di un evento di natura prettamente traumatica (meccanica, fisica, chimica) e solo in tal caso l’eventuale infezione che ne derivasse-come esempio un’osteomielite su una frattura- può essere indennizzabile.
Di fatto, l’intenso sforzo contrattuale di integrazioni e/o estensioni, evidenzia un’unica cosa: che anche per le compagnie di assicurazione la malattia infettiva per le sue caratteristiche di violenza, esteriorità e casualità, nonché somiglianza all’azione dei veleni, è assimilabile ad infortunio indennizzabile.
Ne deriva che se non si vuole indennizzare l’infezione, la stessa deve essere esplicitamente esclusa con chiara norma contrattuale.
Orbene, il punto saliente dell’attuale contenzioso sta -come meglio si illustrerà di seguito- proprio nella carenza di tale esclusione, andata “perduta” nei più recenti (ma precedenti la pandemia del 2020) contratti di polizza infortuni.
Di fatto la pandemia da COVID 19 ha (ri)acceso l’attenzione medico-legale su tali ambiguità e carenze dei contratti assicurativi e dobbiamo chiederci (come fa Marozzi) se per caso non ci troviamo di fronte a un nuovo duello medico-legale -come già in passato avvenuto per altri argomenti come la risarcibilità del trauma minore del rachide- augurandoci che, piuttosto, si apra una stagione di sereno dibattito scientifico-tecnico, al solo scopo di ottenere il miglior risultato possibile, ovvero quello che il cittadino s’attende da noi operatori del diritto -medici legali, avvocati e magistrati- con una adeguata risposta a quelle che spesso sono delle vere e proprie tragedie personali o familiari.
È inevitabile rilevare che esistono posizioni sia contrarie che favorevoli alla indennizzabilità delle conseguenze dell’infezione da COVID 19 in ambito di polizza infortuni.
Va premesso che i pareri contrari appaiono in questo momento storico, sovrastare per numero quelli favorevoli.
Va anche sottolineato che i pareri -sia contrari che favorevoli- si basano su fonti storiche, dottrinarie, bibliografiche e giurisprudenziali di tutto rispetto, nessuna trascurabile o risibile.
Vediamo allora, in primo luogo i pareri contrari.
Partendo dai pareri medici legali (principalmente Ronchi e Mastroroberto), sostanzialmente in essi si afferma che “res ipsa loquitur”: l’infezione sia essa virale, fungina o batterica, è comunemente considerata una malattia e non infortunio ed essendo un concetto semplice non necessita di nessun’altra spiegazione. Così ad esempio è cognizione comune che esistono i reparti di malattie infettive e nessuno si sogna di dire che i ricoverati di quel reparto sono degli “infortunati”. Pertanto l’esclusione delle malattie infettive è implicita nel contratto ed è accettata da entrambe le parti contraenti e non necessita di ulteriori specificazioni all’interno del contratto stesso. Di fatto chi stipula un contratto infortuni non si attende di vedersi indennizzata una malattia. D’altro lato si osserva, nel caso in cui le conseguenze mortali o invalidanti permanenti da COVID 19 venissero riconosciute in modo diffuso, la spesa per le compagnie d’assicurazione sarebbe insostenibile e porterebbe i costi contrattuali, a livelli così elevati da essere inavvicinabili per la maggior parte della popolazione, facendo così loro perdere il ruolo di protezione sociale. Ancorché l’Inail riconosca l’equivalenza tra causa violenta e causa virulenta, si contesta che tale tesi di fonte normativa di un ente assicurativo statale non può essere riversata, tal quale, nei contratti di polizza privata diversamente finalizzati, rispetto alla funzione di protezione sociale pubblica dell’Inail. D’altro lato si osserva come le morti da COVID 19 siano nel 90% dei casi concausate da un esteso corredo di altre subsidenti e spesso gravi patologie (come diabete, neoplasie maligne, immunodeficienze congenite ed acquisite, patologie croniche cardiache e polmonari), venendo quindi meno il criterio della causalità unica e diretta prevista contrattualmente.
Passando alle argomentazioni contrarie esposte da illustri giuristi, non possiamo non riportare quelle, come di consueto dotte ed acute, del consigliere Rossetti.
Il Rossetti parte dall’osservare come il principio dell’INAIL di equivalenza tra causa virulenta e causa violenta sia sostanzialmente un artifizio, sorto prima della sentenza di Corte costituzionale del 1988, come temporaneo escamotage finalizzato ad indennizzare quei lavoratori che venivano esclusi dalla copertura per le malattie professionali tabellate secondo l’articolo 38 del testo unico. In buona sostanza prima della sentenza della Corte costituzionale, le malattie professionali infettive non tabellate non erano indennizzabili dall’Inail. Pertanto prima di tale data si era ricorsi all’escamotage di equiparare l’infortunio alla malattia infettiva, secondo l’equazione causa violenta uguale causa virulenta. Dice però il Rossetti che dopo la detta sentenza del 1988, plurime sono state le sentenze della Corte di Cassazione che riconoscono in quell’equivalenza un artifizio pertanto non un reale riconoscimento della equivalenza tra causa violenta e causa virulenta. Conclude pertanto il Rossetti, che secondo l’indirizzo giurisprudenziale più corretto, in assenza di una causa violenta come una lesione traumatica determinata da un ago che leda l’integrità della superficie cutanea, la malattia infettiva, di qualsivoglia natura, ivi compresa quella da COVID 19, ricade nell’ambito delle malattie non indennizzabili in polizza infortuni. Ribadisce poi il Rossetti che la malattia infettiva va esclusa dal novero degli infortuni perché manca dell’elemento della “violenza” in quanto la malattia infettiva richiede un periodo di incubazione quindi ha tempi lunghi prima di manifestarsi, mancando della sostanziale prerogativa della concentrazione temporale. Si insinua inoltre nell’organismo in maniera subdola e non evidente tanto che manca anche dell’evidenza macroscopica della violenza.
Peraltro rileva che quanto nel decreto-legge del 2020 dove si riconosce all’articolo 42 la malattia da COVID 19 come evento infortunio indennizzabile, non può essere automaticamente riverberato nei contratti in essere di polizza privata perché si incorrerebbe in una indebita retroattività: la norma è del 2020 e non può, pertanto, condizionare contratti di polizza privata sottoscritti prima di tale data.
Il contratto va interpretato secondo l’intenzione condivisa dei contraenti e siccome l’evento infezione non è preso in considerazione né da chi propone né da chi sottoscrive, non può rientrare nel novero dei rischi assicurati.
Comunque, sia, l’articolo 42 del decreto-legge 18/2020 aveva uno scopo istituzionale, quello di estendere la tutela dei lavoratori esposti a rischio di infezione da COVID 19, ma non certo quello di modificare l’oggetto delle polizze private contro infortuni che sono tutt’altra cosa e, dice il Rossetti, quell’articolo non si occupa affatto dei contratti privati di assicurazione e quindi non si può pretendere che le polizze infortuni debbano uniformarsi ad una norma di legge che riguarda tutt’altra fattispecie ribadendo, perentoriamente, che se ciò dovesse avvenire, sarebbe come “gettare nel cestino della carta straccia secoli di civiltà giuridica.”. Un giudizio pertanto lapidario.
Tra i tanti autori contrari all’indennizzabilità, giusto citare Giampaolo Miotto che propone una sorta di rivoluzione copernicana del nostro concetto di infortunio. Afferma anzitutto Miotto, come non sia vero che i contratti privati siano temporalmente successivi e derivino da quelli dell’infortunistica del lavoro, ma semmai il contrario. In effetti i contratti assicurativi privati contro infortuni c’erano dal 1880 e pertanto preesistenti alla promulgazione della legge del 1898, legge che comunque, a ben vedere, non prevedeva una copertura statale dell’infortunio sul lavoro, ma imponeva ai datori di lavoro di stipulare una polizza privata, quindi, di fatto, non introduceva concetti nuovi, facendo riferimento a contratti privatistici già in essere. Ed in effetti l’istituzione dell’Inail è assai più tardiva risalendo al 1933: quindi tutta la normativa Inail non precede, ma semmai segue quella dei contratti di assicurazione privata. Infine, la definizione di causa violenta come “concentrata al tempo” è a parere di Miotto, un espediente dialettico per amplificare la nozione di infortunio sul lavoro intesa sempre con riferimento all’assicurazione sociale. Secondo Miotto, la causa violenta va più correttamente intesa -citando la definizione della Treccani- come “una forza o un’energia abnorme quanto intensità o impeto” e non pertanto riferita alla sola concentrazione temporale. Ne deduce Miotto che l’infezione virale non ha nessuna di queste caratteristiche: non possedendo forte intensità o impeto abnormi, non è causa violenta.
Passando ad esaminare le prime sentenze in merito, plurime quelle contrarie al riconoscimento della indennizzabilità infortunistica della infezione da COVID 19.
Così il tribunale di Pesaro l’11 giugno 2021 ribadisce i concetti che abbiamo già esposto, ovvero che l’infezione da COVID 19 non è conseguenza di un fatto traumatico con le caratteristiche di “meccanicità”. Ed è senso comune, condiviso da tutti, considerare l’infezione come “malattia” e non “infortunio”, non necessitando pertanto di ulteriori specificazioni o aggettivazioni, e, ancora, che l’articolo 42 del decreto cura Italia non potrà, per sue evidenti caratteristiche finalizzate all’aspetto sociale, essere applicato al comparto assicurativo privato. Il contratto assicurativo privato va interpretato seguendo i criteri di cui al codice civile all’articolo 1362 e seguenti ma non certamente alla normativa che riguarda esplicitamente l’Inail.
Similmente il tribunale di Roma (sentenza 594/2021 del 30 gennaio 2022) afferma che “la malattia infettiva” difetta del meccanismo a presupposto dell’infortunio, ovvero la causa violenta che è assente nel meccanismo operativo dell’infezione da virus.
Ancora il tribunale di Pescara (sentenza 3082/2021 del 23 marzo 2022) rileva che l’estensione della nozione di infortunio a qualsiasi tipo di infezione è contraria allo spirito stesso del contratto di polizza infortuni, rilevando che allora tutte le malattie infettive dovrebbero essere riconosciute infortuni apparendo labile il discrimine tra quella dovuta COVID 19 e le altre. Questo produrrebbe la falla nel sistema tale da inondare le compagnie d’assicurazione di richieste di indennizzo non sopportabili dal sistema. Dice sempre la sentenza del tribunale di Pescara che la similitudine tra avvelenamento e infezione virale, non può essere accolta nello specifico contratto esaminato nel caso di merito perché quel contratto esclude l’avvelenamento del sangue se non determinato dall’introduzione nell’organismo attraverso una lesione esterna di natura traumatica. Estensivamente tale concetto va applicato anche alla esclusione della malattia da COVID 19 perché nel caso specifico non è dimostrata la sua penetrazione nell’organismo attraverso una lesione dell’integrità della cute o delle mucose.
Così brevemente riassunti plurimi pareri contrari e sentenze di tribunale contrarie, passiamo a illustrare i pareri favorevoli. Cominciamo da quello autorevole del professor Zoja, già presidente della società italiana di medicina legale. Il professor Zoja si rifà alle origini di dottrina medicolegale affermando che unanimemente tale dottrina converge sulla equivalenza della causa virulenta con la causa violenta e infatti i contratti di assicurazione privata contengono delle esclusioni specifiche che non sarebbero necessarie se le infezioni non fossero implicitamente contemplate con infortuni. Ne consegue che se il contratto non le esclude esplicitamente, le malattie infettive vanno considerate come indennizzabili.
Interviene a tal proposito il Dr. Pedoja, Presidente SMLT e consigliere SIMLA, che così rappresenta l’interpretazione della Società medicolegale del Triveneto: “L’infezione virale è chiaramente fortuita, non è certamente un atto volontario entrare a contatto con persona infetta e non può esserci un comportamento imprudente: questo nelle polizze non esclude l’indennizzabilità, essendo infatti ammessi anche i comportamenti colposi. Ad esempio non è escluso dall’indennizzo affrontare in auto una curva a 200 all’ora. L’infezione virale è chiaramente esterna (il virus non è una malattia degenerativa del corpo, come una arteriosclerosi coronarica che produce infarto ma è un fattore lesivo che viene dall’esterno). L’infezione virale è una causa violenta perché il contatto infettante con il virus non è dilatato nel tempo, ma concentrato cronologicamente. Non si tratta ad esempio dell’effetto lesivo cronico di un fattore ambientale ma necessariamente deve esistere un momento concentrato singolo in cui l’infezione viene contratta. È quindi intrinseco alla patologia che la causa sia violenta cioè concentrata cronologicamente (…)D’altra parte, proprio considerando l’etimologia del termine “virulenza“ ( che deriva -secondo fonte Treccani- dal termine “virus” che significa “veleno” ), ben si comprende come qualsiasi contratto di Polizza che preveda l’indennizzo per gli infortuni conseguenti ad avvelenamenti (che possono manifestarsi anche con un relativo lasso di tempo rispetto all’epoca del preciso momento causale lesivo) deve -in via analogica contrattuale-riconoscere l’indennizzabilità anche delle conseguenze di infortunio dovuto ad “Infezione” nei termini cronologici contrattualmente previsti (in genere entro i due anni dall’epoca di denuncia) indipendentemente dalle modalità dell’azione lesiva” dell’agente “esterno” sempre che l’evento lesivo sia documentabile e non sia prevista una clausola di esclusione.”
Continua Pedoja osservando (come già Zoja) che la stessa introduzione nei contratti di polizza di specifiche esclusioni per le malattie infettive, evidenzia come queste siano, in realtà, equiparabili, in tutto e per tutto, all’infortunio indennizzabile. È allora evidente, secondo Pedoja, “in assenza di una specifica esclusione le infezioni acute virulente che provengono dall’esterno soddisfano la definizione di infortunio. L’infezione da Covid-19 ha queste caratteristiche e pertanto deve essere ritenuto infortunio.”
Tanto premesso, andiamo ad esaminare le plurime sentenze di tribunale favorevoli alle interpretazioni di Zoja e Pedoja.
Il tribunale di Torino nel gennaio del 2022 confermando l’indirizzo espresso da Pedoja, afferma che in assenza di specifica esclusione contrattuale, le infezioni acute virulente che provengono dall’esterno, soddisfano la definizione di infortunio e pertanto risultano tecnicamente indennizzabili.
Più articolata la sentenza del tribunale di Vercelli (n.693/2021), ove rileva che nel contratto di polizza privata non sia precisato cosa si intenda per causa violenta. Si torna cioè a ribadire quello che ho esposto all’inizio di questo mio intervento, ovvero che in realtà la definizione di causa violenta meriterebbe una precisazione contrattuale.
In assenza di tale precisazione contrattuale, dice -assai lucidamente il giudice di Vercelli-, si è autorizzati a derivare la nozione da altre fonti come l’Inail e le sentenze di cassazione, che, secondo il giudice, chiaramente sostengono tra equivalenza tra causa violenta e causa virulenta. Ne consegue che in assenza di una esplicita esclusione contrattuale si deve interpretare la malattia da coronavirus come infortunio. Si rinnova pertanto quello che già la Cassazione diceva a suo tempo, ovvero che il concetto di causa violenta è vuoto derivando da trasmissione passiva e non da una decrittazione esplicativa, talché non è in realtà un concetto comune, facilmente comprensibile al contraente ma andrebbe meglio esplicitato. In mancanza di chiara definizione contrattuale e in carenza di esplicite esclusioni contrattuali, si può sostenere -così dice giudice di Vercelli- che l’assicuratore voleva comprendere anche l’indennizzabilità delle infezioni. D’altro lato, continua il giudice, è chiaro che l’infezione è fortuita, è altrettanto pacifico che sia esterna. Ma il giudice va oltre, rilevando quello che dice anche il professor Zoja a sua volta richiamandosi a dottrina medicolegale e storicamente al Borri, che l’infezione da COVID 19 è sicuramente “violenta”, con un effetto immediato e devastante tale da distruggere in pochi giorni -qui in termini più giurisprudenziali che tecnico clinici- il sistema immunitario, comunque da provocare la morte dell’assicurato.
Tanto premesso ed illustrato delle posizioni sia favorevoli che contrarie, cerchiamo di dare qualche risposta alle fondate e certamente logiche contestazioni che vengono sollevate da chi non ritiene l’infezione da COVID 19 un infortunio indennizzabile.
La prima contestazione fa riferimento ad una impropria trasposizione di una norma Inail in un ambito che non è quello suo, ovvero quello del contratto di polizza infortuni. Questa contestazione viene sollevata sia dal Mastroroberto sia dal Ronchi, sia soprattutto dal consigliere Rossetti, nonché richiamata nelle plurime sentenze contrarie. Gli autori concordemente affermano che la norma contenuta nell’articolo 42 del decreto “Cura Italia” riguarda solo l’Inail e non può essere in alcun modo trasportata all’interno del contratto di polizza infortuni privato che ha tutt’altra natura.
A mio parere – e con tutto il dovuto rispetto per le autorevoli considerazioni contrarie più sopra esposte – c’è un equivoco di fondo.
In realtà non vi è alcuna trasposizione dall’Inail al contratto privato né vi è alcuna gerarchia storica o di carattere giuridico.
Di fatto, il considerare l’equivalenza fra infezione e infortunio è patrimonio comune della dottrina medico-legale.
Come abbiamo più sopra illustrato, anche con riferimento a quanto autorevolmente scritto dal professor Zoja, richiamando i più remoti scritti del Borri, nella dottrina medico legale non vi è alcuna esegesi contraria alla equivalenza tra malattia infettiva ed infortunio. Non troviamo altri autori che affermino fondatamente il contrario.
Pertanto sia l’Inail sia la contrattualistica privata, null’altro fanno che derivare il concetto di equivalenza fra infezione e infortunio dalla comune fonte dottrinaria medico legale, in maniera assolutamente paritaria e non gerarchica in una trasposizione fra quanto previsto dall’INAIL e quanto contrattualizzato.
L’altra contestazione che viene sollevata e quella della “res ipsa loquitur”, secondo la quale il concetto di infezione come malattia è comune e condiviso da tutti e pertanto non necessita di alcuna ulteriore specificazione nella distinzione tra malattia ed infortunio.
A parere dello scrivente la distinzione tra malattia ed infortunio non è definibile secondo “buon senso comune”, ma necessita di una esegesi scientifica dello strumento medico legale proiettata nell’ambito contrattuale con delle più precise e chiare definizioni.
Dobbiamo, in primo luogo, chiederci se il concetto di violenza sia solo riferito alla sua dimensione macroscopica o di fatto debba, in ragione della intervenuta evoluzione della scienza medica, più modernamente esteso anche a quella microscopia, osservandosi che anche l’infezione virale o batterica, è connotata da violenza ancorché “invisibile”, tale da produrre la morte cellulare estesa fino a compromettere interi apparati se non l’organismo tutto.
È in proposito comune rilevare negli articoli scientifici dedicati all’infezione da COVID-19 descrizioni come “tempesta citochinica”, “violenta sepsi”, “necrosi” di tessuti e via discorrendo, ovvero declinazioni di scenari violentissimi, anche se microscopici.
D’altro lato appare opportuno osservare che all’epoca della legge 80/1898 e dei primi contratti di assicurazione privata (1880), l’origine batterica e virale delle malattie infettive era stata da poco scoperta da Pasteur nel 1864, pertanto è del tutto logico che il meccanismo lesivo, subitaneo e violento, dei patogeni microscopici e submicroscopici, non fosse patrimonio di conoscenza comune e così compreso nella contrattualistica dedicata all’infortunio.
Ed allora la definizione di causa violenta limitata al solo aspetto macroscopico è stata semplicemente (innocentemente) ma passivamente (tralaticiamente come sottolinea la Cassazione) trasferita nei contratti di epoca in epoca nei contratti di polizza, senza alcuna revisione critica.
Il problema dunque è dovuto alla nostra percezione dei fenomeni, che non va limitata al solo aspetto macroscopico della infezione, ma esteso ai concetti microscopici e molecolari, come spiegati dalla moderna scienza che ben rappresenta, in raffinato e sempre più preciso dettaglio, l’estrema violenza dell’azione virale nella sua aggressione a cellule, tessuti ed organi, fino a determinarne la morte.
L’altra contestazione è quella della “falla nella diga” o sovraccarico del sistema privato: se venisse ammessa l’indennizzabilità delle conseguenze da infezione da COVID 19, il sistema assicurativo non reggerebbe.
Mi sembra questo un aspetto eccessivamente enfatizzato, quantomeno per le conseguenze dell’infezione da Covid-19.
Va infatti considerato un po’ meno di un quarto degli italiani ha una polizza infortuni, pertanto con una raccolta premi per le compagnie assicurazione compresa fra i 18 e 21 miliardi di euro. Si tratta di un versamento nelle casse assicurative piuttosto consistente.
La maggior parte degli assicurati ha un’età compresa fra i 30 e i cinquant’anni, e rammentiamo che l’età massima prevista per l’assicurabilità contro gli infortuni si ferma a settant’anni, solo in alcuni contratti elevata al massimo ai 75 anni.
Orbene, statisticamente confermato, l’età media prevalente dei pazienti deceduti per SARS-Cov 2 è di 80 anni e solo l’1,3% del totale di deceduti positivi per COVID 19 ha un’età inferiore a 50 anni.
Ne deriva che la maggior parte dei decessi ha riguardato soggetti non assicurabili per età.
Va poi ancora considerato che anche la letalità, per effetto della vaccinazione di massa, è andata progressivamente scemando, da un 3-4% nei primi mesi del 2021 attualmente allo 0,2%.
Dunque la mortalità da COVID 19 riguarda nella stragrande maggioranza dei casi soggetti di età non assicurabile in polizza infortuni e la letalità è in progressiva riduzione per effetto della vaccinazione, riducendo grandemente il rischio attualizzato per le compagnie d’assicurazione.
Va poi ancora considerato -e questo è un aspetto sostanziale nell’interpretazione medico-legale- che solo il 4,2% dei deceduti non era affetto da altre patologie, mentre il 60% dei soggetti deceduti era portatore di almeno tre, venendo pertanto meno in questi casi il principio della causa diretta ed esclusiva che costituisce elemento contrattuale sostanziale per il riconoscimento della indennizzabilità dell’infortunio.
Fino a questo momento ho parlato dell’evento più semplice ancorché il più tragico possibile, ovvero la morte dell’infortunato quale conseguenza dell’infezione da COVID-19.
Vi sono tuttavia soggetti che fortunatamente non decedono 19, ma sviluppano sintomi e segni di danno. È ancora in discussione quali di questi disturbi possano essere considerati forieri di danno permanente.
Dobbiamo in primo luogo chiederci che cosa sia la sindrome post COVID. Secondo le definizioni in letteratura (WHO) questa è costituita da segni e sintomi che si sviluppano durante o dopo un’infezione compatibile da COVID 19, continuano per più di 12 settimane e non sono spiegati da una diagnosi alternativa.
La sindrome presenta più sintomi spesso sovrapposti che possono fluttuare cambiare nel tempo oltre interessare qualsiasi sistema e apparato dell’organismo. I principali segni e sintomi sono nove:
- dispnea
- stanchezza
- dolore al petto/gola
- mal di testa
- altra forma di dolore
- sintomi addominali (dolore addominale, cambiamento delle abitudini intestinali e diarrea)
- dolori muscolari
- sintomi cognitivi (brain fog: difficoltà di concentrazione, attenzione, memoria)
- ansia/depressione
Ma accanto a questi ve ne sono ben altri 13 minori:
- insonnia
- palpitazioni
- vertigini
- formicolio
- dolori articolari
- acufene e dolore auricolare
- altri disturbi digestivi, diarrea, mal di stomaco, perdita di appetito
- tosse,
- alterazioni dell’olfatto o del gusto
- eruzioni cutanee
- disturbi vari che peggiorano dopo attività impegnative fisicamente o mentalmente
- alterazioni del ciclo mestruale
- febbre.
La pluralità delle manifestazioni non può che rendere assai complessa la valutazione percentualistica del danno permanente derivato dalla infezione da COVID-19.
L’INAIL ha proposto un criterio valutativo suddiviso in “classi di gravità”, utilizzando i parametri già presenti nella tabella annessa alla 38/2000 facendo confluire i segni e sintomi in 4 classi, con valori di invalidità via via crescenti dall’1 al 100%.
Tale raffinato modello applicativo non è tuttavia mutuabile, così com’è, nel contratto di polizza infortuni dove si deve procedere come previsto, per sommatoria semplice, aritmeticamente cumulando le percentuali di invalidità derivate dalla menomazione riscontrata a carico di singoli organi ed apparati.
A rendere complessa la valutazione del danno permanente in ambito di polizza, la ancora incerta definizione di permanenza di alcuni dei principali sintomi e segni del “long Covid” e la loro difficile oggettivizzazione. Si pensi ad esempio, alla variegata congerie dei sintomi neurologici e sensitivi, come la perdita dell’olfatto, la stanchezza cronica, la “nebbia cognitiva” et similia, sintomi che pur descritti in letteratura, rimangono di assai difficile sicura determinazione strumentale e pertanto sfuggenti al concetto contrattuale di “lesione fisica oggettivamente constatabile”.
Ciò necessariamente impone, una volta di più, una profonda revisione dei modelli di riferimento per la valutazione del danno in polizza infortuni, con il progressivo, ma ormai ineludibile, superamento di indicazioni metodologiche e tabellari (le ormai antiche “tabelle ANIA” e “INAIL ex 1124/65) rese ineluttabilmente inefficaci (ed in ultima analisi inapplicabili ed inapplicate nella corrente valutazione del danno alla persona indennizzabile) dallo sviluppo delle conoscenze scientifiche e dall’evoluzione dottrinaria medico legale e giurisprudenziale.
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