Quando della chance aleggia solo il profumo

Ringrazio l’Avv. Elettra Bruno per aver autorizzato la pubblicazione della trascrizione della relazione che ha esposto al convegno SMLT del 14.04.2023.

Buona lettura

Dott.ssa Sarah Nalin

Segretario SMLT

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La presente costituisce mera trascrizione dell’intervento dell’Avv. Elettra Bruno al convegno del 14 aprile 2023 organizzato da SMLT in Padova dal titolo “La chance tra giurisprudenza e medicina legale: una realtà misurabile?

Il punto di vista del ricorrente

Il danno da perdita di chance, ancora oggi per alcuni operatori del diritto, è un oggetto misterioso, vuoi perché alla definizione attuale data dalla Corte di Cassazione si è arrivati dopo oscillazioni giurisprudenziali, vuoi perché il concetto comunque non è intuitivo e non è di immediata evidenza.

Questo fa sì che l’avvocato del ricorrente si trovi tra l’incudine ed il martello, sia nel caso in cui intenda domandare il risarcimento del danno da perdita di chances, sia nel caso in cui intenda domandare il risarcimento del danno da morte o del danno biologico.

Nel primo caso, perché corre il rischio di vedersi rigettare la domanda sull’erroneo presupposto della mancata prova del nesso di causa tra condotta e danno.

 Nel secondo caso perché corre il rischio che il giudice di merito valuti come perdita di chances quello che in realtà è un vero e proprio danno da uccisione o danno biologico.

Direi di fare subito un esempio, così è più semplice comprendere a cosa mi riferisco.

Ho portato con me una relazione d’ufficio, depositata ovviamente nel corso di un procedimento civile già concluso.

Una persona che stava anche abbastanza bene, non era il nostro paziente malaticcio, si ricovera in ospedale per essere sottoposto ad un intervento di polipectomia endoscopica. Durante il ricovero contrae la temibile infezione da Klebsiella pneumoniae, la terapia antibiotica che ne consegue è mal gestita. Il CTU riconosce che tutte le allegazioni dell’attore, tutte le censure mosse alla condotta del medico sono fondate, quindi  afferma che i sanitari non hanno correttamente operato nella gestione, nel contenimento della infezione, hanno somministrato una molecola non adatta a quel tipo di batterio, l’hanno somministrata “male”, perché in dosi insufficienti ed ad intervalli di tempo non regolari. La faccio breve. L’avvocato del ricorrente, dopo l’inizio delle operazioni peritali è abbastanza soddisfatto, ma quando arriva la bozza dell’elaborato peritale legge che il Ctu così conclude: l’exitus è connesso ad uno shock settico da infezione nosocomiale con danno multiorgano e quindi il paziente “ha perso la chance”.

Ecco il rischio che l’avvocato del danneggiato corre. Egli già pregustava una bella sentenza, ma le conclusioni della CTU rendono più faticoso il compito del legale, sia nel futuro giudizio di merito e sia nella informativa da fornire al cliente, il quale dovrà comprendere quale sia la differenza tra i due tipi di danno, anche in termini di risarcimento percepito.

Proverò, quindi, ad illustrare come attenuare questi rischi, attraverso tre passaggi.

1.Inizierò con un brevissimo resumè della evoluzione giurisprudenziale che ha portato alla attuale posizione della giurisprudenza di legittimità;

2. proseguirò, poi, con la elencazione e l’esame dei principi ormai saldamente definiti dalla Corte di Cassazione e come essi debbano essere declinati negli atti di parte.

3. infine, confronterò quei principi con alcune affermazioni rinvenute in talune consulenze tecniche di ufficio.

Passiamo all’esame del primo punto.

Partiamo, quindi, da dove tutto è cominciato, nel 1985 con la sentenza Cass n. 6506, nell’ambito del diritto del lavoro, e con limitato riferimento alla stima del danno patrimoniale.

Il caso che diede origine alla tesi del danno da perdita di chances fu questo: ad un tale, dopo aver sostenuto la prova scritta di un concorso bandito dall’Enel, venne impedito di partecipare alla prova orale.

Il lavoratore allora convenne in giudizio l’Enel, chiedendone la condanna al risarcimento del danno consistito non già nella perdita degli stipendi che avrebbe guadagnato se avesse vinto il concorso, ma consistito nella MERA SPERANZA di vincere il concorso.

Il lavoratore arrivò fino in cassazione, la quale affermò un principio destinato poi ad avere una straordinaria fortuna: la mera speranza di progredire in carriera è una “ricchezza” del lavoratore, e la sua perdita costituisce un danno di per sé, a prescindere alla maggiore o minore possibilità di avveramento di quella speranza.

Arriviamo alla seconda tappa . Ecco la sentenza Cass n.4400/2004, con la quale la S.C. non fece altro che estendere alla materia del danno non patrimoniale, principi già consolidati in tema di danno patrimoniale: ossia che il  paziente ha comunque diritto ad essere risarcito per il solo fatto di avere perduto la possibilità o chances di guarire o sopravvivere.

Il caso in cui per la prima volta venne affermato questo principio era quello di un paziente con un aneurisma dell’aorta addominale, non tempestivamente diagnosticato. L’aneurisma si ruppe ed il paziente morì.

Si accertò nel giudizio di merito che, se l’aneurisma fosse stato tempestivamente diagnosticato, e il paziente fosse stato tempestivamente operato, un intervento chirurgico avrebbe avuto “scarse possibilità” di successo.

Anche in questo caso gli eredi del de cuius arrivarono sino in Cassazione.

La Corte di cassazione ritenne tuttavia che, con l’esecuzione di un tempestivo intervento, il paziente avrebbe avuto almeno una possibilità (chance) di sopravvivere; e che a causa di quella omissione dei sanitari, invece non ebbe nemmeno quella.

Passiamo ora alla terza tappa,  con la pronuncia 28993/2019 (Presidente Dott. G. Travaglino):

la perdita di chance è la privazione della possibilità di un miglior risultato, sperato, incerto ed eventuale (la maggiore durata della vita o la sopportazione di una minore sofferenza). Questa pronuncia, resa nell’ambito del Progetto Sanità  (si ricorda come noto che il progetto nacque dalla necessità di garantire l’uniformità delle decisioni di merito) è il manifesto in questa materia.

Ricapitolando

IN ORIGINE

Il danno da perdita di chance era un danno in cui la causalità era inferiore al 50%

Dal 2004

  • La chances è una componente del patrimonio di ogni individuo.
  • Non essere adeguatamente curati e perdere – di conseguenza- la speranza di sopravvivere o guarire è perdita di un bene “non patrimoniale” in sé e dunque un danno emergente
  • Non richiede la prova che la guarigione, in caso di tempestive cure, sarebbe seguita con certezza o ragionevole probabilità, ma solo la prova che in caso di tempestive cure esisteva la possibilità di guarigione o sopravvivenza;
  • È un danno patito dal paziente e non dai suoi congiunti. In caso di morte del paziente possono invocarne il risarcimento i suoi eredi (che non necessariamente coincidono con i prossimi congiunti)
  • La liquidazione di esso non può che effettuarsi in via equitativa

Nel 2019 la perdita di chance  è divenuta la perdita di un risultato favorevole obiettivamente incerto.

Possiamo a questo punto applicare i principi che ci ha consegnato la Corte di Cassazione in vitro, principi che ci consentono di distinguere cinque ipotesi.

Le immagini della slide ci aiuteranno nella comprensione del discorso.

La prima ipotesi è quella più semplice: LA CONDOTTA DEL MEDICO FU LA CAUSA CERTA DEL DANNO.

Il medico taglia il piede destro anziché il piede sinistro.

Sul punto consentitemi una brevissima digressione. Attenzione: quando si parla di nesso di causa non ci dobbiamo minimamente occupare o preoccupare della natura colposa o meno della condotta. La rimproverabilità della azione è tutt’altra “parrocchia”. Non è questione che interessa il nesso di causa. Si può causare un danno senza colpa, così come si può tenere una condotta colposa che non causa nessun danno. Sono due accertamenti sul piano processuale che hanno presupposti, natura, scopo e fondamento completamente diversi.

Quindi,  quando il ctu scrive nel suo elaborato “la condotta del medico Tizio è stata diligente e quindi non vi è nesso di causa”, scrive una frase non esatta.

Concludendo sul primo punto (cioè il medico tiene una condotta che è causa del danno) non si deve parlare di perdita di chances quando il danno è una conseguenza certa della condotta del medico.

La Seconda ipotesi: LA CONDOTTA DEL MEDICO FU CAUSA ALTAMENTE PROBABILE DEL DANNO.

La condotta del medico è la causa più probabile, ossia è pari al 51% rispetto alle altre. Anche questa è una ipotesi elementare. La condotta del medico, tra tutte le cause potenziali ed astrattamente possibili di danno è stata la più probabile, cioè più del 51% rispetto alle altre ipotesi di probabilità.

La Terza ipotesi: LA CONDOTTA DEL MEDICO FU LA CAUSA MENO IMPROBABILE TRA TUTTE DEL DANNO.

Il medico tiene una condotta che non si può dire che è stata la causa certa del danno. Il danno può avere avuto teoricamente più cause. Immaginiamo di poter disegnare un grafico a forma di torta. Ed immaginiamo che la condotta del medico sia una fetta del 40%, cioè ipotizzabile come una probabile causa del 40% . Immaginiamo che un’altra probabile causa, un’altra fetta della torta, del 20% possa essere stato un evento naturale imprevisto ed imprevedibile. Immaginiamo che un’altra fetta del 20% sia stata rappresentata dal fatto del terzo e l’ultima fetta del 20% sia una causa insondabile, imprevedibile ed imperscrutabile.

Nel caso che stiamo esaminando c’è un potenziale concorso di almeno quattro cause diverse. E nessuna di esse è superiore al 51% di probabilità.

In tal caso, scatta la regola stabilita dalla Corte di Cassazione nel 2008 con le 8  sentenze dalla 575 alla 582, estensore Dott Antonio Segreto. In tal caso la regola è che si deve ritenere causa  del danno, non la causa che abbia il 51% di probabilità di aver causato il danno, ma la causa meno improbabile tra tutte.

Quindi tra cento probabili cause, delle quali 98 hanno l’1% di probabilità, e la 99ma ha il 2% di probabilità, la causa del danno è quella che aveva il 2% di probabilità. Questo è il noto concetto del “più si che no”, quello che la dottrina chiama “della preponderanza dell’evidenza”.

In questa ipotesi, il danno può essere causato teoricamente da fatti diversi, solo uno dei quali è la condotta del medico. Se la condotta del medico, comparata con le altre possibili cause è la meno improbabile di tutte, allora la condotta del medico si dovrà ritenere la causa del danno.

Anche qui non c’entra proprio la perdita di chance. Qui siamo davanti al nesso di causa bello e buono, vero e proprio tra la condotta e la morte o malattia.

Visto che già tante volte abbiamo  nominato la parola “probabilità” ed anche il collega Locatelli ha avuto una reminiscenza adolescenziale, tra possibilità e probabilità, io ritengo che possiamo spendere due parole sul giudizio di probabilità.

Il nesso di causalità non è un fatto, ma è un giudizio. Non è una cosa che esiste in natura. E’ una opinione che l’uomo si fa delle cose che accadono. Ora, essendo il nesso di causa un giudizio, esso avrà carattere di certezza in due casi:

a) quando la condotta del medico ha 100% di probabilità di essere stata la causa,

b) quando la condotta del medico ha lo 0% di possibilità di essere stata la causa.

In tutti gli altri casi, il giudizio di causalità si fonda sulla probabilità, e la probabilità può scandirsi lungo una scala crescente.

Quindi, partendo dalla soglia inferiore, potremmo dire che la condotta del medico è stata la causa improbabile, una causa possibile, una causa probabile, una causa molto probabile, una causa certa dell’evento di danno.

Tolti i due estremi (ossia è certo che la condotta del medico è stata la causa/è certo che la condotta del medico non è stata la causa), tutti gli altri sono in una scala di probabilità.

Ora il problema è: quale è la soglia oltre la quale questa probabilità acquista uno spessore tale da poter dire che è soddisfatto il giudizio di causalità?

Il concetto che ha stabilito la Corte di Cassazione è questo: la probabilità è una probabilità relativa e non assoluta. Ciò vuol dire che la condotta del medico, come possibile causa, deve essere sempre messa in relazione con tutte le altre.

Dire che la condotta del medico è una causa possibile al 30% non vuol dire nulla.

La condotta del medico rappresenta il 30%, ma le altre? Le altre possibili cause avevano probabilità maggiori ? perché se tutte avevano la probabilità del 10% e solo quella del medico aveva la probabilità del 30%, la condotta del medico è stata la causa. Questo è il concetto di probabilità relativa. Chiusa questa breve ma necessaria digressione arriviamo alla quarta ipotesi.

La Quarta ipotesi : LA CONDOTTA DEL MEDICO FU CONCAUSA DEL DANNO, INSIEME A FATTORI NATURALI.

La quarta ipotesi, purtroppo frequente, si verifica quando la condotta del medico di necessità si innesta su un paziente che ha problemi di salute (altrimenti non sarebbe neanche paziente e non andrebbe neppure dal medico).

La quarta ipotesi si verifica quando la condotta del medico provoca il peggioramento delle condizioni del paziente in concorso con fattori non umani, ma con fattori naturali, (e quindi la pregressa malattia del paziente).

Ora se il danno è concausato dalla condotta del medico e da fattori naturali, è possibile sostenere che il medico ha causato non un danno vero e proprio, ma un danno da perdita di chance?

… come si legge talora in alcune ctu: il paziente era già malato, quindi il medico ha fatto perdere solo una chance. Si tratta di una affermazione non esatta.

Nel concorso tra condotta dell’uomo e concause naturali del danno, l’autore della condotta risponde per intero perché il nesso di causa non è frazionabile. O c’è o non c’è. Non può essere stato causa al 50%. Il nesso di causa si fraziona soltanto nel caso di concorso tra più condotte umane: un po’ era colpa del primario ed un po’ era colpa dell’aiuto. Allora c’è un concorso di cause umane e tutti rispondono in solido verso il danneggiato, ma sul piano interno della obbligazione solidale, la responsabilità si ripartisce secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate (2055 cc.).

Il punto è: il medico che causa il danno in concorso con concause rappresentate da fattori naturali, non provoca perciò solo un danno da perdita di chance.

La presenza della concausa naturale non esclude di per sé il nesso di causa né ne determina il frazionamento.

Può essere utile ricordare – incidenter tantum- che la presenza di una concausa naturale incide non sulla causalità materiale, ma può incidere sulla causalità giuridica.

Ricordiamo brevemente.

Criticata o non criticata, piaccia o non piaccia, oggetto di dibattito o non oggetto di dibattito, ormai la giurisprudenza di legittimità è consolidata nell’affermare il seguente principio.

Data una condotta illecita, questa condotta – per dare luogo al risarcimento – deve ledere un diritto.

Il nesso di causa che deve esistere tra la condotta colposa e la lesione del diritto, è regolato dall’art. 40 c.p. e prende il nome di “causalità materiale”.

Dalla lesione del diritto, possono poi derivare conseguenze dannose. Questo è un altro nesso di causa, che prende i none di “causalità giuridica” e non è disciplinata dall’art .40 c., ma dall’art 1223 c.c., che come sappiamo consente solo la risarcibilità dei danni che sono conseguenza immediata e diretta del fatto illecito.

Quindi, a livello teorico, la causalità materiale è “larga”, perché l’art. 40 cp dice “qualunque fatto senza il quale l’evento non si sarebbe verificato (teoria della condicio sine qua non), mentre la causalità giuridica è “ristretta”, perché non qualunque fatto, ma solo i danni che sono conseguenza immediata e diretta sono risarcibili.

Ora secondo la Corte di Cassazione, se la lesione del diritto è stata concausata da fattori naturali e da condotta dell’uomo, questo non incide sulla causalità materiale, perché il nesso di causa è infrazionabile. Quindi, se il medico ha concorso per l’1%, le pregresse condizioni del paziente hanno concorso per il 99% a causare il danno, il medico risponde per l’intero.

E’ responsabile al 100%. Dopo di che il danno che ne è derivato, il danno conseguenza, è quello che va liquidato in base alla regola del 1223 cc., e quindi con un abbattimento del risarcimento.

Questa però è questione che riguarda il Giudice e non il medico legale.

Dunque, cosa resta?

Resta la Quinta ipotesi. Come potete ben vedere l’ambito di applicazione del concetto di perdita di chances è, tutto sommato, residuale. Invece nella realtà dei processi sta diventando quasi l’ipotesi più frequente.

Si può parlare, allora, di perdita di chances quando è certo che la condotta del medico non è stata essa la causa del danno. Bisogna, cioè, escludere totalmente il nesso di causalità tra condotta e danno. Escluso questo nesso di causalità, però, sussiste danno da perdita di chances quando è possibile accertare un secondo nesso di causa, quello tra la condotta del medico e la perdita di un risultato favorevole che era probabile.

Quindi la condotta non è stata la causa del danno. Non c’è nesso, quindi escludiamo il danno da morte. Tuttavia, la condotta è stata la causa non del danno, ma della perdita di un risultato favorevole e probabile che va accertato con i criteri della causalità (preponderanza dell’evidenza).

Veniamo adesso ai corollari di diritto processuale.

I problemi di diritto processuale, sono quattro.

  1. Il primo è che, ovvio, essendo il danno da perdita di chances una cosa del tutto diversa per fondamento e natura dal danno biologico e dal danno da morte, deve essere richiesto.

Per essere richiesto correttamente non basta la formula stereotipa nelle conclusioni, è necessario che a monte delle conclusioni ci sia l’allegazione (quindi l’assolvimento dell’ onere assertivo).

Ricordiamo a questo riguardo che la riforma Cartabia ha introdotto in via generale per tutte le parti del processo, l’onere di redigere gli atti processuali in modo “chiaro e preciso”, ed è innegabile che questa norma riverbererà effetti anche sui criteri di giudizio della nullità dell’atto di citazione.

Quindi la allegazione dei fatti che costituiscono la domanda che costituisce il fatto costitutivo della domanda che costituisce il danno da perdita di chances deve avvenire in modo chiaro e preciso.

  • La seconda conseguenza processuale è che la domanda non può che essere subordinata.

Non si può chiedere “voglio il danno da morte  e voglio anche il danno da perdita di chance”.

Una domanda del genere il giudice la dichiarerà nulla ai sensi dell’art. 164 cpc , perché è una domanda incompatibile.

E’ come se l’attore in una causa avente ad oggetto la domanda di condanna al pagamento in materia di obbligazioni pecuniarie, dicesse “voglio il pagamento dell’intero debito  e voglio anche il pagamento di quel che resta detratto l’acconto” o l’uno o l’altro.

  • Il danno da perdita di chance, nel caso in cui il paziente venga a mancare, è un danno patito dalla vittima primaria. Quindi può essere richiesto solo dagli eredi e non dai congiunti. Non spetta, pertanto, al convivente more uxorio (salvo ovviamente testamento).
  • Ricordiamo che la legge Cirinnà, la quale ha introdotto le unioni civili, mentre ha parificato il convivente more uxorio al coniuge per quanto riguarda i diritti risarcitori, non lo ha parificato per quanto riguarda i diritti successori. Quindi non è legittimato a domandare il danno da perdita di chances. Ricordiamo poi che se tra i chiamati all’eredità e viene formulata domanda di condanna al risarcimento da perdita di chances, quella domanda vale come accettazione tacita della eredità. Quindi bisogna tenerne conto se il deceduto aveva una situazione debitoria importante.

Detto fin qui degli atti di parte, veniamo ora a dire delle conseguenze processuali sugli atti di ufficio.

Vediamo quindi Il quesito  al ctu e le risposte del ctu. Il quesito al ctu non può estendersi al danno da perdita di chances se una domanda in tal senso non è stata formulata, perché il ctu finirebbe per indagare  su fatti che non compongono il thema decidendum e se il giudice la condividesse, sarebbe una pronuncia  ultra petita.

In secondo luogo, quando una domanda è stata formulata, ed un quesito è stato posto al ctu, il consulente non può affrontare il tema del danno da perdita di chances se non dopo avere esaurientemente e sottolineo esaurientemente affrontato e superato e risolto il problema del nesso di causalità.

Mi spiego. Il consulente si trova talora davanti a due strade. Una stretta e tortuosa, accertare se c’è nesso di causalità tra condotta e danno; una larga, comoda, libera: dire che tutto sommato – vuoto per pieno -la condotta del medico ha fatto perdere delle probabilità di sopravvivenza al paziente.

Accade non di rado che il consulente scelga la seconda strada, senza minimamente occuparsi del nesso di causa, compie affermazioni di questo tipo: il paziente era già malato, era malconcio, era moribondo, era uno straccio, il medico ha sì commesso un errore, ha sì tenuto una condotta colposa, ma questa condotta non ha causato la morte, gli ha solo fatto perdere una chance.

Una risposta di questo tipo è giuridicamente erronea perché affronta il tema del danno da perdita di chances senza aver previamente affrontato il tema del suo presupposto, cioè la assenza del nesso di causa tra condotta e danno da morte

Qualcuno di voi forse a questo punto avrà compreso il significato della prima slide, con la immagine del profumo di Chanel, chance.

Questo perché il nostro Avvocato ha ricevuto il cliente, ha ascoltato tutto il racconto dello svolgimento dei fatti, ha istruito il fascicolo, ha scelto un bravissimo medico legale quale ctp,  dopo le operazioni peritali era stato informato dal ctp sull’ottimo andamento delle medesime, ha subito dopo avvertito il cliente ansioso per tranquillizzarlo e per esporgli l’andamento del procedimento. Il cliente, a sua volta,  già comincia a ipotizzare come investire il risarcimento cospicuo che otterrà all’esito della causa…. arriviamo al deposito della CTU e del risarcimento integrale sperato, si sente ormai solo il PROFUMO, perché nelle conclusioni è stato riconosciuto solo il danno da perdita di CHANCE !

Avv. Elettra Bruno

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