Il danno incrementativo o differenziale: riflessione relativa in particolare al concetto di condizione concorrente con riferimento alle rinunce forzose.

Dott. Francesco Pravato

Si propone di seguito uncontributo tecnico medico-legale del Dr. Francesco Pravato, in merito al tema del danno differenziale. Buona lettura.
Dott.ssa Sarah Nalin
Segretario SMLT


Il termine danno differenziale o incrementativo si riferisce a una modalità di valutazione del danno biologico permanente in ambito civilistico; modalità con la quale si vuole valutare il danno alla persona in caso di preesistenti menomazioni.
Menomazioni preesistenti modificanti le reali rinunce che la menomazione anatomo funzionale (conseguente al fatto di rilevanza giuridica da risarcire )avrebbe da sola causato. 
La dottrina medicina legale, se applicata con la corretta metodologia, da sempre considerava la necessità di modulare l’invalidità permanente derivante da una menomazione qualora la stessa non si fosse verificata in soggetto sano ma in soggetto portatore di una menomazione preesistente. 

A parere del sottoscritto, un esaustivo riassunto della storia del pensiero medico-legale al riguardo, può ben essere conosciuta leggendo il capitolo “Lo stato anteriore e le macromenomazioni” a firma di Luigi Papi nella pubblicazione “La valutazione delle macropermanenti” a cura di Giovanni Comandé e Ranieri Domenici Edizioni ETS 2005.
La rilevanza dello stato anteriore nella valutazione del danno alla persona veniva, infatti, costantemente ribadita nella dottrina medico-legale, ad esempio negli scritti di Luvoni[1], di Franchini[2] e poi di Bargagna[3]. E altresì trova conferma nel dettato di legge del Codice delle Assicurazioni del 2005.

Purtroppo, la prassi valutativa molte volte si discostava da tale principio dottrinario incontestabile, deviando perniciosamente in modalità valutative di tipo indennitario, che cioè tenevano conto solo della lesione menomazione post-traumatica, anatomicamente delimitata, e non degli effetti negativi globali sulla funzionalità della persona affetta da preesistenza.
Veniva, pertanto, dimenticato il fatto che il danno ingiusto è costituito dal peggioramento rispetto allo stato anteriore e che questo, in caso di preesistenza, si sostanzia nelle eventuali nuove o differenti rinunce che si realizzano nel soggetto già menomato.

Per esemplificare, un soggetto amputato di gamba con protesi cammina. 
Se viene amputato anche l’altro arto resta in carrozzina. 

Il danno ingiusto non è quindi la percentuale prevista per la perdita dell’arto ma la rinuncia a poter comunque camminare piuttosto che dover essere in carrozzina. 
Un tipo di rinuncia, quindi, differente rispetto da quella che si realizza in soggetto sano che amputato di un arto inferiore con protesi, potrebbe comunque camminare, stare in doccia, etc… 

Il nostro soggetto già amputato di un arto peraltro stava già patendo una serie di rinunce, vi erano funzionalità di cui non godeva.
Già non correva, già non faceva lunghe passeggiate, già era esteticamente menomato.
Queste rinunce, già sussistendo, non possono essere risarcite, ma debbono esserlo quelle ulteriori e differenti che la nuova menomazione ha creato.

La risarcibilità riguarda il peggioramento rispetto allo stato anteriore.

La medicina legale, scontrandosi con un aderenza ingiustificata e aculturale al criterio indennizzatorio, ha affrontato il problema fin dagli anni 90, con gli scritti del Prof. E. Ronchi e del Prof. O.Morini.
Colpisce l’aggettivazione di “mancetta “con cui il Prof. E. Ronchi definisce l’atteggiamento a volte tenuto dai consulenti di parti resistenti a fronte di quadri di questo tipo: solo un contenuto aumento della percentuale di danno biologico per una realtà invece completamente differente da quelle che le tabelle potevano indicare per la menomazione post traumatica o post iatrogena da sola.
Tale prassi valutativa ha di fatto creato la necessità di riflettere su quanto accadeva in queste fattispecie. 
La problematica è stata presa in mano dalla giurisprudenza nel 2014, con una sentenza in caso di responsabilità professionale in cui il CTU aveva affermato che l’invalidità complessiva del soggetto era il 10% ma che comunque per la lesione inizialmente patita (si trattava di cattiva cura di danno traumatico di un arto) avrebbe avuto un’invalidità del 5%. Con ciò concludeva affermando che il danno risarcibile era quello derivante da un’invalidità del 5%. 
La sentenza ha invece affermato che il danno ingiusto era il passaggio da un 5% a un 10%. Questo era di fatto il fenomeno biologico che si era realizzato. 
La rilevanza economica derivava dal fatto che le tabelle economiche di risarcimento non operano con proporzione diretta tra invalidità e risarcimento bensì questo diventa più rilevante per singolo punto a mano a mano che l’invalidità aumenta. (Suprema Corte di Cassazione sezione III sentenza 19 marzo 2014, n. 6341).

Successivamente, con sentenza del 2019 (Civile Sent. Sez. 3 Num. 28986 Anno 2019), presidente dr. Giacomo Travaglino e relatore Dr. Marco Rossetti, la Cassazione ha dato proprio una indicazione della modalità operativa da adottare per queste fattispecie. Entrando, oserei dire, a gamba tesa sulla metodologia medico-legale di valutazione del danno in queste fattispecie.

Da qui sono però nati vari commenti di tipo medico legale evidenzianti delle criticità che potevano nascere da un’interpretazione meccanica, matematica e automatica dell’indirizzo di Cassazione.

Al riguardo ritengo chiarificatore leggere gli articoli del prof. E. Ronchi su Ridare e le perplessità operative in casi pratici espresse nella medesima Rivista dal Dott. Enrico Pedoja e dal Dott. Enrico Pizzorno.
Nella pratica professionale si riscontrano frequentemente interpretazioni difformi della metodologia.
Ritengo, quindi, di esprimere alcune considerazioni all’attenzione dei lettori, relative ad aspetti specifici e non certo alla compiutezza della problematica che richiederebbe una trattazione difficilmente contenibile in un articolo.

Con riferimento in sostanza al concetto di concorrenza, di peggioramento rispetto allo stato anteriore e all’applicabilità dei barèmes in tale fattispecie, bisogna, a mio parere, ribaltare un po’ il problema.

Una persona non è invalida perché presenta una menomazione tabellata.
Una persona è invalida perché la sua salute compromessa crea delle “rinunce forzose” nella sua esistenza, non perché è inquadrabile nelle tabelle.

Riporto un passo della sentenza del 2019 sopracitata: “ma il danno alla salute consiste nelle rinunce forzose indotte dalla menomazione, non nel punteggio di invalidità permanente”.
Al riguardo la definizione del 1980 di Handicap della Organizzazione Mondiale della Sanità, precisa i concetti di Impairment (menomazione), Disability (disabilità) e di Handicap (svantaggio).

 Menomazione si riferisce a perdite o anormalità che possono essere transitorie o permanenti e comprendere l’esistenza o l’evenienza di anomalie, difetti o perdite a carico di arti, organi, tessuti o altre strutture del corpo, incluso il sistema delle funzioni mentali. 

Disabilità – per l’OMS “qualsiasi restrizione o carenza (conseguente a una menomazione) della capacità di svolgere un’attività nel modo e nei limiti ritenuti normali per un essere umano”. Per l’ICIDH si tratta di “scostamenti, per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nella espressione dei comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso…” 

Handicap: Secondo l’OMS si tratta di “una condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella persona in relazione all’età, sesso e ai fattori socioculturali”.

Va ricordato che le indicazioni tabellari sono frutto di una convenzione, e arrivano rispetto alla definizione di salute della OMS al concetto di disabilità, cioè si riferiscono all’uomo medio. Hanno il significato di far sì che menomazioni analoghe siano risarcite in modo analogo. Esse cioè si riferiscono al c.d. “Uomo Medio”, (non ad un uomo già menomato).

Ne deriva che due menomazioni analoghe devono essere risarcite in modo analogo e due menomazioni differenti devono essere risarcite in modo differente. 

La Sentenza di Cassazione richiama chiaramente al concetto di rinuncia forzosa, che di fatto vuol dire rinunce pratiche, reali, di quella persona.

Le tabelle hanno utilità nel momento in cui il medico valutatore può trovare analogia tra il quadro clinico che egli evidenzia e la menomazione indicata nelle tabelle.
Nel momento in cui quadro clinico globale se ne discosta completamente, o meglio le rinunce reali se ne discostano completamente, le tabelle sono prive di significato.

La rinuncia reale è la causa del danno alla persona; le tabelle sono uno strumento, utile ove applicabile, non sono “l’essere” il danno alla persona.

Con ciò giungendo al problema del danno differenziale o incrementativo non si può che condividere l’opinione del Prof. E.Ronchi quando afferma che la competenza medico legale in queste fattispecie deve penetrare nel comprendere quali reali rinunce nel fare la persona patisce e se lo stato anteriore menomato fa sì che queste rinunce siano concausalmente determinate dai due fattori presenti: stato anteriore e preesistenza.

E l’inquadramento delle reali rinunce deve avvenire attraverso un’analisi di competenza clinica e medico-legale della persona lesa, non attraverso un automatico meccanismo di riferimento alle percentuali dei barèmes. 
Con attenzione focalizzata su quali siano realmente le funzioni compromesse, quali le capacità perdute rispetto a prima. 
E solo dopo questo inquadramento va considerato il ricorrere o meno di un incremento (o al contrario un decremento) del danno risarcibile.
Diventa cioè molte volte ben difficile usare i barèmes, perché la rinuncia di fatto realizzatasi e correttamente inquadrata può non trovare analogia nelle indicazioni dei barèmes, per la voce che si riferisce con descrizione anatomo-funzionale al deficit dello specifico distretto anatomico leso.

Facciamo l’esempio paradossale di un vero trauma cervicale. 

Nel soggetto sano (uomo medio) ciò si tradurrà in un disturbo soggettivo costituito da dolenzia in determinate situazioni, al limite in una limitazione di pochi gradi del movimento del collo.
Ma il collo a cosa serve? Il collo serve ad ampliare il campo visivo. Il collo è un periscopio. Le mosche non ce l’hanno il collo, ma hanno degli occhi che pur fissi spaziano quasi a 360°. Quindi non hanno bisogno del collo. Mentre l’uomo sì, perché il campo campo visivo compreso nella funzione degli occhi non è così ampio ed Egli lo aumenta ruotando il collo.
Così, se una persona ha una riduzione del campo visivo per patologia oculare, nel momento in cui viene privata anche i movimenti del collo, il suo campo visivo diviene ulteriormente ridotto e la situazione è completamente differente rispetto ad un soggetto sano visivamente, e la rinuncia non riguarda solo la dolenzia cervicale bensì la funzionalità visiva di esplorare con lo sguardo il mondo che ci circonda.
Ecco, quindi, che una tabellazione con riferimento alle indicazioni per la soggettività dolorosa del collo non avrebbe nessun senso in una fattispecie di questo tipo in cui lo stato anteriore rende il collo un organo prezioso per la vista. E il peggioramento rispetto allo stato anteriore e a causa della menomazione preesistente è la riduzione campo visivo, con una rinuncia quindi ben più grave rispetto alla teorica dolenzia cervicale che nell’uomo medio un trauma cervicale può causare.

E allora che utilità possono avere le tabelle fino al 2% per postumi di distorsione cervicale? Nessuna. Non è certamente la rinuncia che questa persona patisce.

Ad esemplificare a fronte di traumi cervicali veri, che magari hanno richiesto un artrodesi cioè un blocco di alcune vertebre cervicali, una delle cose che più frequentemente le persone lamentano è di dover ruotare il tronco in macchina per fare la retromarcia o guardare dietro perché non possono ruotare il collo.

Così per inciso lo sviluppo tecnologico influisce anche in queste cose perché senza gli efficaci specchietti retrovisori odierni il problema sarebbe molto più pressante (ve lo dice un artrosico).
A mio parere e in sintesi tutto ciò fa sì che il medico-legale deve avere una conoscenza significativa delle funzioni corporee e che il singolo caso venga affrontato riflettendo su quali sono le rinunce reali.

Se non è possibile operare un criterio di analogia con i barèmes per la lesione-menomazione patita, bisogna considerare quale sia la reale funzione perduta, e poi eventualmente aderire alle tabelle per quella funzione e non per la semplice menomazione anatomica presente. 

L’aderenza tassative, meccanica e automatica ai barèmes può portare a conclusioni anche inique, nel momento in cui si debba riferire solo alle indicazioni relative all’organo menomato dal trauma recente.
Facendo un altro esempio, consideriamo una persona con un grave deficit visivo che va incontro ad un danno significativo dell’udito. Sembrano due organi differenti ma non lo sono e qui ci vuole la competenza medico-legale per argomentare correttamente sul fatto che udito e vista sono funzioni concorrenti nel sistema percettivo. 
Certamente un compito più gravoso sia per competenze culturali da acquisire sia per l’impossibilità di fare quella relativamente facile operazione di inquadrare la menomazione anatomico-funzionale all’interno delle tabelle e poi eventualmente togliere la base di partenza se vi era una preesistenza.

Con tutto ciò si giunge a dover porre una riflessione sul criterio di cause concorrenti che la sentenza di Cassazione cita.

La sintesi, a mio parere, è che se correttamente ci riferiamo alla funzione perduta e alle rinunce che prevede il caso del nostro periziando, già menomato, possiamo ben verificare se quello che è accaduto è peggiore (o minore) per Lui a causa dello stato anteriore e in che misura. Cioè se esiste concorrenza nelle rinunce reali, se queste realmente diventano peggiori. 

È più facile considerare degli esempi.

Una persona con una caviglia bloccata, in anchilosi, che subisce una contusione di ginocchio che crea qualche dolore cronico, ad esempio alzandosi in piedi da una sedia, non ha un danno differente rispetto ad una qualsiasi altra persona. Lo stato anteriore non rappresenta una concorrenza nella sua disabilità, che è connessa semplicemente al piccolo disagio presente che è autonomo, perché differente, rispetto al blocco della caviglia. Tutte le persone con una dolenzia modesta di ginocchio hanno la medesima privazione, una certa cautela alzandosi dalla sedia.

Quindi non c’è una concorrenza nelle rinunce reali, malgrado entrambe le menomazioni colpiscano l’organo arti inferiori.

Potrebbe sembrare apparentemente ragionevole, ma mio parere errato, aggiungere all’anchilosi di caviglia qualcosa per il ginocchio e procedere nel risarcimento con il danno incrementativo. I danni di piccola entità non possano essere inquadrati come incremento della disabilità precedente, perché il loro effetto è analogo nel nostro periziando rispetto ad un soggetto medio. Le rinunce sono le medesime. 

Ricordo al riguardo un commento del Prof. F. Introna (senior) che nel valutare fattispecie di questo tipo faceva riflettere sul fatto che da un lato il danno poteva essere maggiore ma che dall’altro questo poteva essere compensato dal fatto che già la menomazione precedente prevedeva delle significative rinunce.

Una persona che già doveva rinunciare a correre per una menomazione preesistente ad una gamba, che subisce un ulteriore lieve lesione all’arto controlaterale, che conferma solamente la rinuncia a correre, quale maggior danno ha subito a causa dello stato anteriore? La rinuncia pare essere la medesima, si aggiunge solo un modesto ulteriore disagio, che sarebbe lo stesso per chiunque. E quindi valutabile autonomamente con ibarèmes per quel distretto anatomo-funzionale.

Al contrario, nel momento in cui la menomazione dell’organo adelfo per sua gravità sia tale da portare ad un complessivo grave danno deambulatorio e quindi non alla sola rinuncia a correre ma anche ad una deambulazione valida, e questo per il fatto che l’organo controlaterale essendo già menomato non permette di compensare e quindi di garantire comunque una deambulazione. Senza la menomazione preesistente una deambulazione quasi normale sarebbe stata conservata e quindi lo stato anteriore è condizione necessaria per la funzione perduta della deambulazione. E quindi vi è concorrenza. Va cioè evidenziata quale sia la rinuncia ulteriore, verificando il quadro clinico realmente presente nel nostro paziente. 
Concorrenza nelle rinunce, aumento delle rinunce a causa dello stato anteriore, non semplice corrispondenza tabellare degli organi interessati.

Quindi, la sintesi è che bisogna fare una fatica significativa per inquadrare il nostro paziente, chiarire cosa è cambiato nella sua vita sulla base di presupposti anatomo-funzionali clinici oggettivi e argomentabili.
Cosa che aderendo pedissequamente alle tabelle può non essere possibile.

Mancando l’analogia manca il presupposto fondamentale perché le tabelle abbiano una utilità valutativa.

E quindi non usando le tabelle il problema è risolto?

Purtroppo, senza le tabelle si rischia sempre di cadere nell’arbitrio valutativo con tutte le conseguenze pratiche di discordanze valutative costanti e quindi di contenzioso incontrollabile.

Diviene a questo punto indispensabile considerare sempre quale sia la funzione compromessa e di riferirsi alle indicazioni tabellari con riferimento a quella funzione, che la nuova lesione-menomazione ha ulteriormente compromesso o meglio aggravato.

Per fare un esempio, consideriamo un soggetto paraplegico che ha perso un braccio, ipotesi già discussa in precedente articolo da altri colleghi. Ora il paraplegico usa la carrozzella e la spinge con le mani. Senza un braccio ora la spinge peggio. Quindi la perdita dell’arto incide anche sulla funzionalità degli spostamenti. Ma la perdita dell’arto incide prevalentemente sulla funzione prensile in generale: mangiare, lavarsi, scrivere eccetera. Poi nel suo caso vi è anche la diversa componente relativa agli spostamenti.

Però procedere nell’ottica del danno incrementativo partendo dall’80% come danno base porterebbe a non dare valenza a tutto il resto delle rinunce che per il nostro paraplegico sono le medesime di un soggetto sano.

Non è quindi che una semplice concorrenza in una funzione possa dar luogo ad un danno incrementativo, che potrebbe tradursi in una non giustificata sottostima del danno reale patito.

Va poi considerato il problema delle menomazioni plurime monocrone di cui una è autonoma rispetto allo stato anteriore ed una invece va ad aggravare la funzione già compromessa. Non mi cimento neppure nel considerare cosa fare in una fattispecie di questo tipo dal punto di vista della monetizzazione; ritengo sia un problema che investe competenza certamente medico-legale ma prevalentemente giuridica.

Forse ponendosi di fronte a casi pratici può sorgere il timore che col danno differenziale si sia scoperchiato un vaso con del buon miele ma che contiene anche molti insetti pungenti.

A mio parere, e con questo concludo, il semplice automatismo, che la Sentenza di Cassazione parrebbe a prima vista proporre, in realtà non pare sempre calzante, viste le innumerevoli condizioni particolari che la realtà biologica presenta al medico legale valutatore.

Condizioni attinenti alla realtà biologica, che di fatto rientrano nella competenza medico-legale, cioè dal tecnico possono essere evidenziate e necessitano di una ponderata riflessione da parte dell’ausiliario del magistrato.

Non è, quindi, assolutamente ipotizzabile una modalità operativa ragionieristica (intelligenza artificiale?) in caso di aggravamento rispetto allo stato anteriore in persona già portatrice di menomazione.


[1] Luvoni, riferendosi al Decalogo dei Convegni di Como 1967 e di Perugia 1968 cita al riguardo la proposizione contenuta appunto nel decalogo espresso nel corso di questi due convegni: “ La valutazione dell’invalidità deve tener conto dello stato anteriore del soggetto. Lo stato anteriore comprende età, sesso, costituzione, preparazione tecnico professionale del soggetto, tare morbose, eventuali menomazioni preesistenti “. Quindi al di là dei riferimenti alla componente patrimoniale che evidentemente non hanno attinenza nel momento in cui si parli di danno biologico non patrimoniale già si fa chiaro riferimento alla necessità di tener conto delle menomazioni preesistenti nella valutazione. L’autore scrive: “ Le percentuali della tabella sono applicabili nei casi medi, ma ma se da questa media ci si discosta per effetto dello stato anteriore del soggetto, le percentuali andranno variate di conseguenza. Si pensi come una menomazione attuale può essere sopportata è compensata da un giovane rispetto ad un soggetto di età avanzata; come diversamente può incidere una menomazione di un organo o di un atto già menomato rispetto ad uno integro”.

[2] Franchini “l’uomo è stato anteriore. Non è la validità assoluta che interessa ma quella relativa di quella determinata persona che vale sempre 100. D’altra parte è raro che si abbia da esaminare un soggetto perfettamente integro”.

[3] Bargagna , con maggiore precisione la Guida orientativa per la valutazione del danno biologico permanente della Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni, recita al punto nove del decalogo: “ La valutazione della menomazione dell’integrità psicofisica non può prescindere dallo stato anteriore del danneggiato, vale a dire dall’età ed alle menomazioni congenite e o acquisite. L’apprezzamento dovrà essere praticato caso per caso, valutando e dando atto della validità residua analiticamente descritta prima e dopo l’evento lesivo in esame. Nel caso di compromissione della integrità psicofisica preesistente, anche se grave e altamente menomante, restano altri attributi che, opportunamente adattati, possono consentire ancora un’esistenza più o meno accettabile. Questa condizione può essere considerata un altro “ 100 esistenziale”. Nel caso di una nuova menomazione della valutazione dovrà essere adattata a tale realtà, tenendo presente l’effettiva incidenza peggiorativa che ne deriva alle condizioni preesistenti. Da ciò potrebbe vedersi riconosciuta una percentuale superiore di quella tabellata così come, ad esempio, nel prodursi di una sordità in un non vedente. In altri termini, anche dopo le menomazioni che hanno annullato la capacità lavorativa, resta un nucleo di potenzialità esistenziali, se si vuole, un altro il nuovo 100+ piccolo, diversamente dimensionato, quasi mai da identificare con il risultato di una semplice differenza tra le percentuali di menomazione tabellate. Si tratta di un ragionevole suggerimento imposto dalla scelta fatta in conseguenza del ricorso alle indicazioni percentuali. “

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